Diego Alverà racconta. Gianni Brera, l’anima del calcio.

“Padano di riva e di golena, di boschi e di sabbioni, nonché autorevole figlio legittimo del Po”. Così si raccontava Giovanni Luigi Brera. Ma, in realtà, Giòann è stato molto di più, scrittore e cronista, letterato e critico, paracadutista e partigiano, poeta e profeta della buona tavola, saccheggiatore di cantine e fumatore incallito, padre attento e acrobata semantico, calciatore mancato e maestro di tattica, pugile e teorico del “gran gioco”. Ma, tra tante altre cose, Brera è stato, anche e soprattutto, il creatore e il padre di una neolingua a me cara.

Come Gadda e Calvino.

Alla stessa maniera di Gadda e Calvino, il suo affascinante universo letterario nasceva dal serrato confronto tra parole, assonanze, echi e richiami tangibili e concreti. Quell’impianto veniva da lontano, era il frutto di robuste e secolari radici, il lascito di progenitori illustri, miti classici e vulgate locali. Per questo ha tenuto a bada polvere e ombre, per questo si è dimostrato moderno e anticonvenzionale, a dispetto dei rigorosi costumi dell’accademia e delle reprimende dei puristi. Per questo continua a stregare e affascinare al cospetto dell’omologata e vacua immediatezza di questo presente.

Storie di fiume e di parole.

Alla terra e al mare, Brera ha sempre preferito i fiumi, anzi il suo fiume. Quel mondo lento e in fluida progressione trasportava l’esistenza, gli splendori e le miserie, i vezzi e le emozioni. Gianni non cercava di sfidare o governare la corrente, non resisteva ai vortici rapidi dell’acqua bassa. Rimaneva piuttosto sulla riva, abbracciato all’argine maestro, tra sabbie e alberi, sole e ombre. Conosceva bene la passione. Gli aveva dato confidenza sin dagli anni giovanili, nella confusione dei primi sogni notturni. Così, giunto alla maggiore età, aveva rapidamente compreso che la sua strada sarebbe dovuta rimanere lontana dalla laurea in Scienze Politiche e da un sicuro futuro accademico. Giovanni aveva scelto di fare di testa sua, di inseguire il richiamo di un avvenire diverso, certamente più incerto e bislacco di quello che era forse lecito attendersi da tutto quel suo esuberante talento. Ma per Giovanni la carriera non era una cosa importante. A lui piaceva altro. Soprattutto, piaceva raccontare, scrivere, riflettere e discutere. Con parole sue, con idee sue, senza badare ai codici e a tutte quelle odiose regole che volevano impedire a visione e talento di prendere in mano la penna. Perché a lui piacevano le lettere e le parole, ma solo quelle, fiere e ostinate, che erano sgusciate via dalle pagine dei grandi libri per sperimentare una dimensione più umana e orizzontale, finendo per andare a baciare i marciapiedi tra le drogherie e i salumieri, lontane dalla grigia riluttanza dei salotti culturali. Quella sua passione avrebbe lasciato il segno, quel suo singolare dono era destinato a diventare un patrimonio di tutti, collettivo e comune. Nonostante l’apparente obliquità del percorso, era un predestinato, perché era scritto anche nelle ghiaie del Po che sarebbe diventato uno dei più celebri giornalisti italiani di sempre.

Il calcio e lo sport come una moderna antropologia del sociale.

Il contributo di Brera allo sport moderno e all’arte pedatoria, più in particolare, è difficilmente ponderabile. Parlano per lui i libri, gli articoli, i dibattiti, le disfide tattiche e le tante serate trascorse ad alzare asticelle negli studi televisivi come in osteria, a forza di vino, agnolotti e stracotto. Giòann non ne ha solo cantato le gesta, come hanno fatto tanti altri celebrati e stimati colleghi. Brera è arrivato a incidere nel profondo della sua essenza popolare, è riuscito ad influenzarne carattere e tenuta. Non a caso, le sue fantasmagoriche analisi tecniche hanno spesso valicato i confini delle rubriche sportive per mettersi al servizio di un disegno più ampio, di una complessa visione antropologica della società trattando vizi privati e pubbliche virtù alla stregua di trame tattiche, catenacci e contropiedi. Grazie alla sua penna quel creativo fluire di parole e termini sarebbe diventato un manifesto culturale, la massima rappresentazione del carattere genetico di questo Paese e dei suoi abitanti.

Tra vertigini e fontanazzi.

Da sempre attento ai particolari, Giovanni è rimasto per tutta la vita uno spirito concreto, onesto e autentico che mirava alla sostanza delle cose. Non è tanto lo stile, confessava, a fare la differenza, quanto quello che hai da dire e il modo in cui ti riesce di raccontarlo. E quanto a stile, lui ne aveva per tutti. Non tanto per il modo colto con cui costruiva sponde immaginarie tra la vertigine dell’empireo e le effimere profondità dei fontanazzi, tra i proverbi di strada ed i rimandi storici, quanto piuttosto per il complessivo passo lirico, riflessivo ed elegante, caustico e feroce. Perché, poi, quand’era necessario scuotere le coscienze e i polpacci, lui non si tirava certo indietro. Gianni era un uomo del dialogo e della discussione, geniale nel mescolare sottile malizia e spunto polemico. Per quanto non ne andasse fiero, le sue qualità superavano di gran lunga i difetti. Anche nella professione fu tra i pochissimi a coltivare competenza e approfondimento. Quando nell’immediato dopoguerra la “Gazzetta” gli offrì di occuparsi di atletica, lui accettò di buon grado nonostante conoscesse poco o nulla di quel mondo. Così tornò a scuola. Si mise a studiare, a parlare e a discutere con gli esperti e, nel giro di pochi mesi, diventò il cronista più competente del giro, capace non solo di maneggiare tecnica e agonistica, ma anche tutte le scienze alimentari, gli stili di vita e le leggi di fisica, dinamica e meccanica.

Un pioniere della modernità.

Il calcio era solo uno dei suoi tanti amori. In gioventù era anche salito sul ring per fare il pugile, o, come diceva lui, per rimediare una doccia calda. Lo sport e tutte le sue discipline esercitavano in lui grandissimo fascino e attrattiva, dall’atletica alla nobile arte della bicicletta, di cui divenne un apprezzato cronista. Nei fatti, precorse i tempi, sino a scorgere in quelle discipline sportive una sorta di filtro con cui leggere e raccontare tutte le diverse declinazioni dell’anima. Perché, in realtà, di questo si occupava la sua penna. Al di là di contesti e strumenti, Brera raccontava infatti la natura dell’uomo, la sua fallibilità e le sue incertezze, l’effimero fascino di grandezza e meschinità. Si esaltava al cospetto delle vittorie ma non si abbatteva mai nelle sconfitte. Scioglieva matasse, apriva strade e gettava ponti attendendo poi che qualcuno decidesse di seguire i suoi passi. In termini giornalistici e letterari fu un autentico pioniere della modernità. Stravolse e innovò tutti i codici della professione, elevandone etica, profilo e dignità. Quell’innata sensibilità gli regalò sempre lucidità e visione, facendogli anche comprendere, in netto anticipo sui tempi, la triste deriva che minacciava il mondo della pedata.

Istinto e geometria.

Nonostante una stretta confidenza con il futuro e i suoi orizzonti, Brera ha abitato un mondo ancora antico, cortese e signore, dove gli articoli erano sempre il frutto di fatica fisica prima che intellettiva, figli naturali della tattile pressione delle dita sui severi tasti di una macchina da scrivere. In quel mondo le necessità di stampa governavano tempi strettissimi, e scrivere era un’arte complessa fatta non solo di belle parole ma anche di insonnia e lucidità. Come molti altri grandi cronisti di quella stagione, possedeva un dono naturale, qualcosa a metà strada tra istinto e geometria. Forse anche perché i suoi celebri “pezzi” nascevano tra gli scalini che collegavano le tribune agli spogliatoi, e le poche correzioni, vergate di pugno con la fidata stilografica, faticavano a trovare spazio su fogli extra strong fittamente battuti.

L’anima del calcio.

Gianni è stato il calcio. Ne ha sapientemente custodito l’anima affidandola ai posteri e alle nostre rozze e misere mani. Rimarrà per sempre uno spirito unico e inimitabile, un gigante, un vero intellettuale che si misurava con l’arte dell’esistere, flirtando con letteratura e pittura, storia patria e filosofia, cibo e vino, amori e amicizie, vita e morte. Le sue adorate quattro macchine da scrivere portatili, tutte Olivetti lettera 22 e lettera 32, all’indomani della scomparsa avvenuta per un tragico incidente stradale il 19 dicembre 1992, furono donate rispettivamente al Museo del calcio di Coverciano, al Circolo culturale “I Navigli” di Milano, al Ristorante la Quintana di Vidigulfo e a Gianni Mura. Si era raccomandato al riguardo, perché solo così avrebbe avuto la certezza di ritrovarle un giorno. Sarà forse anche per questo che ogni mese mani amiche depositano sulla sua tomba un sigaro toscano, uno della stessa marca che amava infilare nel taschino della giacca. C’è da scommettere che, prima o poi, gli tornerà la voglia di accenderlo.