Diego Alverà racconta. La corsa infinita di Abdon Pamich.

L’idea della marcia, il fiato corto, il ritmo costante  e inesorabile di leve e passi gli hanno sempre tenuto compagnia. Abdon li custodiva nel sangue e nel cuore, portandoli con sé sin da quando aveva quattordici anni, quando era stato costretto ad abbandonare Fiume, con il fratello maggiore, per cercare di raggiungere il padre Giovanni a Milano. Anche il giovane Pamich, come molte altre migliaia di italiani, aveva conosciuto in prima persona la dolorosa esperienza dell’esilio, anche lui aveva subito le conseguenze dei drammatici patti consumati nel secondo dopoguerra a ridosso del nostro confine orientale. Il suo era stato un viaggio lungo e difficile, una marcia durata mesi macinando chilometri a piedi, di giorno e di notte, tra valli e guardie, frontiere e controlli, treni e binari, sino al campo profughi di Novara. “Fu quella la gara più importante di tutte quelle che avrei affrontato dopo, al termine vinsi la medaglia della vita”.

Scritto nel destino

Quella dura specialità, fatta di concentrazione, sudore, impegno, dedizione e tanta solitaria fatica era scritta nel destino, anche se, in realtà, entrò nella sua vita quasi per caso. Abdon era un atleta completo, un concentrato di energia in grado di eccellere in ogni disciplina. Inizialmente provò con la corsa campestre, poi guardò alla boxe e, infine, tentò anche con il canottaggio. Fu il destino però a decidere per lui. Abdonprende, infatti, a frequentare la palestra dello zio Cesare dove comincia a tirare pugni sul ring. Quell’esperienza è determinante, perché la boxe è uno sport duro che parla al cuore, che insegna a rialzarsi ogni volta che si va al tappeto, che spinge sempre a portare rispetto all’avversario e a se stesso. La boxe gli piace, ma non quanto vorrebbe. Per sfruttare al meglio le sue doti longilinee e atletiche di prontezza e agilità, gli amici lo convincono a fare il portiere, ma stare fermo in piedi, tra due pali e una traversa, a difendere una rete proprio non fa per lui. Una sera va al cinema a divertirsi con gli amici. Prima della proiezione c’è un filmato della “Settimana Incom” su una gara di marcia lunga e massacrante. E’ amore a prima vista. Pamich non resiste al fascino antico e austero della disciplina più dura, più difficile e più sfiancante. E’ tutto quello che sta cercando. Dal giorno seguente comincia a marciare e non smetterà più.

La medaglia d’oro di Tokio

Nel breve volgere di qualche stagione, grazie anche a quella sua speciale intensità, Pamich diventa uno dei più grandi atleti di tutti i tempi. Conquisterà titoli e allori partecipando a ben cinque Olimpiadi. La gara più bella ed esaltante rimarrà quella dei Giochi Olimpici di Tokio del 1964. Quella domenica 18 ottobre Abdon parte fortissimo sfidando un’insidiosa pioggia. Il ritmo è molto elevato e fa selezione. L’unico a resistere al forcing è l’inglese Nihill. Il marciatore azzurro tiene caparbiamente la testa della gara controllando ogni mossa dell’avversario. Al 38esimo chilometro, però, Pamich accusa forti dolori addominali che lo costringono a rallentare il ritmo. E’ un’improvvisa crisi gastrica, colpa di un bicchiere di tè ghiacciato. Nihill ne approfitta e cerca l’allungo decisivo. Ma Abdon si dimostra più forte di tutto, anche dei dolori di stomaco. Quella furbizia non basterà all’atleta britannico, perché Abdon supererà brillantemente la crisi e, nel giro di soli due chilometri, lo andrà a riprendere tornando a guidare la gara. Il finale è da cineteca, perché Pamich, metro dopo metro, aumenta vertiginosamente il ritmo lasciandosi alle spalle il forte marciatore inglese. Pamich è solo quando entra sulla pista dello stadio Olimpico di Tokyo tra gli applausi del pubblico. Un lungo brivido scende lungo la sua schiena quando taglia il traguardo: Abdon ha appena stabilito il nuovo record olimpico. La sua fantastica medaglia d’oro è la prima e unica dell’atletica italiana in quei Giochi.

L’indomabile spirito degli esordi

Per molti decenni Pamich continuerà a marciare conquistando importanti allori. Nel suo ricco carnet troveranno spazio un bronzo all’Olimpiade di Roma, tre assoluti nei Giochi del Mediterraneo e due titoli Europei. Nonostante il successo e il prestigio, Pamich, però, rimarrà l’atletico e determinato ragazzino degli esordi. Marcerà sempre in compagnia di quello spirito appassionato e di una profonda felicità. Perché per lui la marcia sarebbe sempre rimasta l’avventura più bella. Perché Abdon non avrebbe mai corso per vincere o per amore del sacrificio, come, invece, voleva la retorica dei cronisti. Perché, molto più semplicemente, lui si sentiva bene quando lo faceva.

L’unico avversario da battere

Abdon appartiene a un’era sportiva distante anni luce da quella del professionismo, del denaro e della sponsorizzazione. Perché lui lavorava per riuscire a correre: di notte andava su e giù per la penisola per conto di una nota marca di carburanti e, di giorno, si allenava in pista o ai margini delle strade. Nonostante moltissime e straordinarie gratificazioni, gli allori non gli sono mai bastati. E, oggi, a ottant’anni suonati, marcia ancora, pedala e studia come fosse la prima volta, lasciandosi coinvolgere e entusiasmare dalla vita e da nuovi progetti.

“Il risultato ha rappresentato per me un punto di partenza e non di arrivo. Questa la filosofia che fin dall’inizio ha guidato la mia carriera agonistica. Finita una gara, pensavo già alla successiva, e tanto peggiore era l’esito, tanto più attendevo con impazienza la possibilità di mettermi alla prova, unico avversario da battere, me stesso, perché innalzare i propri limiti è molto più importante che vincere”