Diego Alverà racconta. Lester Young, il brivido del jazz.

Nell’ambiente era solo Lester, un altro piccolo grande genio maledetto del sassofono, ma per Billie Holiday, la luce della sua vita, era “The Prez”, “Il Presidente”. Quell’impegnativo soprannome era il prezzo non solo di uno stile sontuoso e traverso ma, anche e soprattutto, di un’esuberante personalità. Perché nelle cose di quel mondo fatto di riflessi sfocati e albe ingiallite Lester era davvero differente. Gli altri musicisti infatti suonavano, si sfidavano l’un l’altro nelle cantine fumose dei sottoscala pompando ossigeno nelle ance sino a far vibrare l’aria e magari pure anche i bicchieri. Qualcuno di loro riusciva persino a lasciarsi qualcosa alle spalle, un’aria, uno spleen, un’atmosfera, giusto per trovare il modo di farsi ricordare. I più bravi tentavano di catturare il tempo anche solo per il fiato di un sospiro. Ma Lester Willis Young era tutta un’altra cosa.

Il brivido del jazz

“The Prez”, infatti, non suonava ma trasmetteva emozioni, lievi e delicate come il tiepido abbraccio del primo raggio di sole. Quei suoi grappoli di note prendevano infatti per mano e trasportavano sempre altrove ansie e angosce, non solo per il breve giro di una “scala” o di qualche straordinario “solo”, ma anche per tutto il tempo necessario a sentirsi parte del mondo e di tutta la sua fantastica bellezza. Perché “The Prez” era il brivido del jazz, l’attimo fuggente, il passato e il futuro.

A Musical Romance

Quella con Billie non fu solo una storia tormentata, come riportarono le cronache dei quotidiani. Quella loro unione non aveva solo a che fare con ombre e stupefacenti, non era il frutto di un dolce stordimento né tanto meno l’ennesimo effimero viaggio al termine della notte. In quel sodalizio non c’erano solo biglietti di andata. Quella relazione, fitta e stretta come le trame di un tessuto di classe, era qualcosa di prezioso. Prendeva quota al calare delle prime ombre della sera e respirava l’umore agrodolce del successo e delle sbronze, degli eccessi ma anche degli applausi.

Strade parallele

Quella profonda affinità li avrebbe accompagnati a lungo su strade parallele, tra ascese e cadute, sino ad un drammatico epilogo. La vita li avrebbe beffardamente congedati a distanza di soli pochi mesi l’uno dall’altro. Quelle brevi e fragili esistenze purtroppo non avrebbero conosciuto alcun riscatto o consolazione. Lester e Billie avrebbero continuato a sprecare tutto al meglio delle possibilità, d’un fiato, sino a chiudere il conto con gli abissi e le voragini che li minacciavano da anni. Quell’enorme vuoto lo avrebbero riempito alla loro maniera, con un sax e una voce. Lo avrebbero esorcizzato e sfidato tra provini e ingaggi, cutting contest e chorus, big bands e topaie, sogni di gloria e un intricato apparato di eccentriche tristezze.

Vertigine e precipizio

In “Prez” pulsava un’aura magica e irregolare. Era cresciuto sulla strada e ne aveva schivato per anni asprezze e insidie. Se fosse rimasto a governare quei ruvidi affari, con la vita ci avrebbe fatto solo a pugni e, magari, avrebbe finito anche per spuntarla, tra bische e penitenziari. Ma il destino, invece, gli aveva riservato ben altro. Perché Lester, a quel richiamo, a quella solida presa, sarebbe riuscito a sottrarsi proprio grazie alla musica e al ritmo, grazie a suo padre e alla sua piccola orchestra. Dai tamburi degli esordi era rapidamente passato ai tasti e alle chiavi di un sax contralto e, quindi, a quelli di un tenore. In quello strumento aveva trovato la sua vera dimensione. Il sax era come una parete verticale, alta, liscia ed aspra. Lester si trovava a proprio agio con le salite e le discese, con la vertigine del precipizio. Sembrava trovarvi pace. “Prez” arrampicava e apriva vie come un provetto scalatore, salendo con calma e precisione, presa dopo presa, appoggiando il fiato ad ogni nota, intrecciando frasi e ripetizioni come fossero nodi, come un suadente bolero, un moto perpetuo, infinito e ipnotico, caldo e avvolgente. In quelle trame trovò il proprio spazio. Finì addirittura per mettersi in testa di provare a suonare come aveva visto fare a Frankie “Tram” Trumbauer, cercando di stare in scia a quei brividi. Non era cosa del tutto semplice anche perché, tecnicamente, tra i loro strumenti c’era un tono intero a fare la differenza. Ma lui ci provò e ne venne fuori qualcosa di nuovo e rivoluzionario, qualcosa mai sentito prima. Lester aveva trovato la sua strada, il modo per entrare nella storia.

Dal Midwest alla Cinquantaduesima Strada

Fu proprio quello stile, quel tocco leggero e invitante a portarlo in giro per tutti gli States aprendogli le porte di decine di orchestre lungo tutto il Midwest. Lester macinò chilometri e polvere sino alle grandi città dell’est, sino alle luci rassicuranti di New York, di Harlem e di Manhattan, della Cinquantaduesima strada, del Cotton Club e del Birdland. Quel modo di suonare caldo e intenso gli fece condividere il palco con tutti i più grandi, da Count Basie a Fletcher Henderson, da Oscar Peterson sino a Miles Davis e Buddy Powell. Poi le ombre su cui aveva scommesso e che aveva sin lì arginato ripresero quota e cominciarono a imprigionarlo in una stravagante epifania di episodi schizofrenici, inquietanti diagnosi, sindromi bipolari, stranezze, visioni, eccessi, droghe, alcol, cappelli, cappotti e sax inclinati.

Una straordinaria e brillante fragilità

Quelle ombre che salivano da dentro e che lo avevano sempre accompagnato se lo ripresero, lo rubarono al futuro e lo consegnarono alla storia, facendo infine calare il sipario su tutta quella straordinaria e brillante fragilità. Lester provò a resistere con quello che aveva a portata di mano, con il suo sax, i sogni, l’alcol e poco altro. Gli ultimi tempi raccontarono respiri sempre più corti tra declino e abbandono. Così, arreso ormai alle sue ombre, il 15 marzo 1959 Lester si consegnò per l’ultima volta alla malinconia. Sistemò delicatamente il sax sulla sedia della sua stanza e chiuse gli occhi per non riaprirli mai più. Non aveva compiuto nemmeno cinquant’anni. La solita maledizione dei musicisti, commentarono i cronisti. Quattro mesi più tardi Billie, che aveva invano tentato di cantare al suo funerale, lo avrebbe abbracciato in quel buio profondo.