Once in a lifetime: Roger Williamson

Il 29 luglio 1973 muore a Zandvoort, in Olanda, Roger Williamson, di professione pilota automobilistico. Spesso la sorte sa davvero essere spietata, soprattutto quando attende sorniona i piloti dietro una curva difficile o nei pressi di una stretta chicane, ma si trasforma in crudele quando si porta via le vite dei corridori più giovani perché non ha concesso loro di mostrare sino in fondo il proprio talento.

Qualcosa che toglieva il fiato e riempiva gli occhi di lacrime.

Ci fu un’epoca in cui le corse automobilistiche erano ben più di una disciplina sportiva. L’irresistibile fascino della velocità rimase per decenni un affare esclusivo di pochi coraggiosi. Per correre servivano fegato e forza fisica, buoni riflessi e nervi d’acciaio. Il solo tenere in pista una pesante monoposto lanciata a tutta velocità sfidando le spinte opposte di gravità e accelerazione era, di per sé, un grande risultato. In quelle condizioni, sfrecciare ad oltre trecento chilometri su tracciati privi di qualsivoglia sicurezza significava andare incontro a rischi drammaticamente concreti. Calarsi in quei bolidi nella certezza che la prima complicazione avrebbe assegnato all’esistenza e alla traiettoria di ciascuno un valore del tutto relativo e precario, diveniva il modo prescelto per toccare il cielo, per arrivare alla cruda anima delle cose e scorgere, magari, l’infinito. Almeno tre generazioni di giovani piloti, a cavallo tra gli anni cinquanta e i primi anni ottanta, consumarono così i loro sogni così, attaccandosi al volante e respirando fumi di scarico per inseguire un sogno che loro stessi spesso raccontavano a stento, ma che era, pur sempre, qualcosa che toglieva il fiato e riempiva gli occhi di lacrime. Quelle stesse che poi scendevano in silenzio quando bisognava dare l’ultimo saluto a quelli a cui la sorte aveva tragicamente dato appuntamento anzitempo, tra una curva e un rettilineo.

Un tocco magico e speciale.

Roger veniva da Leicester. Era nato tra i fumi di Barkby Road, primissima periferia a nord est del centro. Aveva imparato a correre sui kart su cui era salito a soli otto anni, quando i suoi compagni di squadra ancora inforcavano la bicicletta. Williamson aveva avuto una signora scuola; suo padre Dodge, che lo aveva cresciuto tra le latte d’olio di un’avviata officina preparando vetture da corsa, era una presenza fissa degli speedway dove correva da anni togliendosi anche qualche soddisfazione. Al suo cospetto, il piccolo Roger sembrava avere una marcia in più, non solo per la giovanissima età, che di certo attenuava la percezione del limite e del rischio. Roger possedeva un tocco magico e speciale, lo stesso che ti fa avvertire le pieghe dell’asfalto prima che si materializzino allo sguardo, una sorta di istinto naturale che ti fa sfiorare un pedale solo qualche istante primo o dopo degli avversari garantendoti quel margine infinito che si rivela spesso una distanza fatalmente incolmabile. Roger dovette attendere di compiere quattordici anni per cominciare a gareggiare, ma in soli quattro anni fece incetta di trofei in diverse discipline passando dalle mini stock-car alle monoposto. Nel 1971 approda alla Formula 3 dove, per due anni di fila, si aggiudica il campionato inglese davanti a piloti come Brise e Walker destinati a diventare sicuri protagonisti delle corse. E’ il miglior debuttante di sempre, la promessa dell’automobilismo inglese.

Quella sua portentosa gavetta lo porta in Formula 2 dove vince il Gran Premio d’Italia a Monza battagliando per il titolo di categoria in compagnia di Cevert, Mass, Depailler, Wisell e Brambilla. Ma, dietro l’angolo, c’è addirittura la tanto attesa Formula 1. Capita infatti che la BRM di Louis Stanley lo inviti per una serie di test che la prima guida Clay Regazzoni non può sostenere. Roger brucia il record della pista girando sugli stessi tempi di Lauda pur testando diversi set di gomme. La scuderia, impressionata dalle sue prestazioni, gli offre un contratto ma il suo manager non crede in quel propulsore e cerca altrove un buon sedile. La voce si sparge e si fanno avanti anche la McLaren e la March che, alla fine, la spunta offrendogli di disputare una manciata di gare con la 731.

Quel drammatico e tragico settimo giro.

Alla prima corsa, a Silverstone, nel Gran Premio di casa, rimane incolpevolmente coinvolto in un incidente alla partenza. La seconda, a Zandwoort, sulle dune olandesi, dura purtroppo solo sette giri. Sarà lo scoppio di uno pneumatico a decidere della sua fragile esistenza, facendolo uscire drammaticamente di pista. La sua March punta contro un terrapieno e cappotta rovinosamente di traverso ad un guard-rail. Il suo è un dramma crudele, perché quel che rimane della monoposto prende fuoco e nessuno, tranne il compagno di scuderia Purley, che sarà l’unico del lotto a fermare il bolide per tentare disperatamente di strapparlo a mani nude all’atroce destino, è minimamente attrezzato ad affrontare le fiamme ed a spegnere il fuoco. Purley si sbraccia in mezzo alla pista chiedendo disperatamente aiuto, strappa un estintore dalle mani di un inetto commissario che lo vuole allontanare e cerca di rovesciare i rottami infuocati per liberare l’amico da quell’orrenda trappola. Purtroppo sarà tutto inutile.

Un dramma della negligenza e dell’impreparazione.

Quello di Williamson è un dramma della disorganizzazione, della negligenza e dell’impreparazione di un mondo che si scopriva, ogni gara di più, fragile, cinico e impotente. Perché la morte e il fuoco erano parte integrante dello spettacolo e fatalmente venivano accettate da tutti, da pubblico, piloti e costruttori: erano poco più del prezzo da pagare. Il Gran Premio d’Olanda proseguì incredibilmente senza alcuna interruzione, senza discussioni o polemiche, mentre il fuoco, alimentato dal vento e dal passaggio delle vetture in pista, divorava le lamiere. Il tardivo intervento dei commissari di pista contribuì, nell’indecente confusione del momento, solo ad alzare verso il cielo un triste pennacchio di fumo nero che andò a ricoprire mestamente il tracciato di gara. Solo al termine della gara, dopo che il vincitore aveva alzato la sua coppa e festeggiato con lo champagne per la gioia dei fotografi, il corpo martoriato e senza vita di Williamson venne finalmente estratto dalle lamiere infuocate della sua vettura.