Diego Alverà racconta. Le corde oscure di John Coltrane.

Mi piace pensare che la musica, ancor più delle parole, non conosca parentele. Quello messo a disposizione dallo spartito è uno spazio angusto e limitato e, pur consentendo molteplici speculazioni, mette spesso in severa difficoltà. Se poi si sceglie di rimanere all’interno di un preciso perimetro stilistico, ritmico o armonico, evitare di sovrapporre le proprie idee a quelle degli altri risulta esercizio difficile e complicato se non impossibile. Non è detto che tutto questo sia negativo, non è per niente detto che debba per forza guadagnare all’incauto esecutore epiteti ingenerosi. Perché la musica è anche questo, replica e ripetizione. E’ così da sempre, mica solo da quando si è concessa in sposa al consumo di massa, quantomeno sin da Bach, Mozart e Beethoven, dagli anni di Ravel e Satie, anche se oggi l’apparente semplicità del pop e delle derive post-moderniste rende il tutto più evidente.

Una significativa eccezione

La ripresa, la citazione e il riferimento sono da sempre cardini del processo creativo: sono codici che aiutano a colorare il contesto, a placare vezzi, a risvegliare sciarade oltre che, ovviamente, a dichiarare appartenenze. Tutte le altre cose, le stucchevoli e bizantine disquisizioni su cosa sia originale, su come cada il refrain o quale sia il numero delle note che integri il reato di plagio, le lasciamo volentieri alle memorie difensive dei legali degli artisti, perché non di questo ci si vuole occupare, certamente non delle solite furbizie, delle ripetizioni pedisseque o di banali repliche, perché poi, comunque, la creatività non deve conoscere mai limiti o canoni, sia che si voglia inseguire le fughe di Chopin o che ci si perda nei beatz acidi di DJ Shadow. Comunque sia, questo continuo e ipnotico fluire del “già sentito” incontra, talvolta, significative eccezioni, strani scherzi del talento in cui il vortice espressivo battezza percorsi del tutto inediti e originali, che  rimangono peraltro tali per molto tempo perché troppo complessi per essere ridotti in vocaboli semplici e funzionali al maneggio, alla promozione e alla diffusione dell’opera.

Un volano di brucianti intuizioni

L’universo musicale di John William Coltrane mi ha, più volte, sollecitato queste riflessioni. Non tutto il suo catalogo, ma, più propriamente, alcune sue prove, le ultime, quelle di cui si è compreso appieno la portata solo molto tempo dopo la sua scomparsa. Suoni coraggiosi, di frontiera, privi di schemi, fluidi come l’acqua ma anche viscosi e abrasivi come la calce. Purtroppo quei brillanti lavori hanno dovuto scontare la sua assenza, gli sono sopravvissuti al caro prezzo di una mitizzazione postuma che nelle buone intenzioni dei critici ne avrebbe dovuto preservare l’essenza ma che, invece, alla prova del tempo, ha finito per ridimensionarne impatto e portata. Tutto questo non sarebbe piaciuto a Coltrane. Perché John, che veniva da un’infanzia rubata, studi seri e un volano di brucianti intuizioni, non si lasciava certo influenzare dagli altri. Aveva compreso a sue spese l’importanza di tenere il punto, di rimanere saldo anche quando bisogna addentrarsi in territorio stranieri, estremi e inospitali, solo per vedere sino a dove ci si può spingere, solo per sperimentare il limite massimo di ogni accordo. Perché John era uno spirito libero, un esploratore, un pioniere della frontiera, quella stessa che avrebbe fatto ombra a buona parte della musica contemporanea.

A caccia di corde profonde e oscure

Quando la sua ancia prendeva a vibrare, lui se ne andava a caccia di corde profonde e oscure cercando l’intima e nuda tensione del suono. John non amava metodi nè procedure. La sua era piuttosto un’attitudine, un viaggio permanente e solitario alla ricerca del fatale punto di rottura. John cercava quel momento, quell’attimo magico e assoluto. In tutto il suo straordinario percorso artistico Coltrane ha sempre gelosamente difeso questo perimetro. Vi  ha permesso l’accesso solo a due anime tese e affilate come la sua, a quella del primo mentore, Dizzy Gillespie, e a quella del suo maestro, Miles Davis, che lo convocò per le sessions di “Kind of Blue” parlandogli solo di futuro. Quasi come fece, in tutt’altro contesto, il visionario talento di Michelangelo Antonioni che, sul set dell’enigmatico “La notte”, chiese, con garbo e cortesia, al maestro Gaslini di comporre una “musica così”, consegnando quella gravosa sospensione alla sua attenta sensibilità.

“Giant Steps”

In quel contesto storico di derive controllate, accademie, scuole e schemi, John si rivelò un gigante, un’anima gentile e notturna, in grado di mettere assieme perizia tecnica, stile assoluto e talento creativo, aprendo nuove strade a chi gli si era sistemato in scia. La sua grandezza è andata oltre le chiavi di genere, oltre le barriere e i consumati stereotipi, oltre il passato a cui aveva attinto a piene mani, ben oltre il futuro che gli altri credevano di intuire. Lavori come “A Love Supreme”, “My Favourite Things” e “Giant Steps” mescolano stili e ritmi, fraseggi e schemi sino a frantumarli per farne qualcosa di nuovo e inedito, un flusso sonoro denso e pastoso, testimonianza di un’espressione libera e autonoma, lontana da generi e schemi ma contigua un po’ a tutto. Non è un caso quindi che le sue intuizioni siano divenute terreno fertile per intere generazioni di musicisti e gruppi della più ampia e diversa estrazione, che le hanno cavalcate cercando di uscire dai recinti dell’omologazione e dalle tentazioni dell’autoreferenzialità. Fu proprio grazie a questa universalità che il suo pensiero e la sua visione si rivelarono negli anni molto più decisive di quanto la critica aveva inizialmente previsto. Ma, si sa, ottica e contesto globale difettano sempre agli specialisti della carta stampata.

Un moderno outsider

Coltrane è rimasto un capitolo a parte nella storia della musica contemporanea, un outsider, un compositore completo, maturo, moderno e senza tempo, alieno a tutto e lontanissimo dai soliti e abusati stereotipi di genere. Se ne andò alle quattro del mattino di lunedì 17 luglio 1967. Aveva solo quarantuno anni. Lo stroncò un vigliacco tumore al fegato così fulminante da non concedergli nemmeno la grazia di un dignitoso congedo.

“Il mio compito di musicista è trasformare gli schemi tradizionali del jazz, rinnovarli e soprattutto migliorarli. In questo senso la musica può essere un mezzo capace di cambiare le idee della gente. Il jazz, se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C’è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra.”