Once in a lifetime: Ferruccio Valcareggi

Il 12 febbraio 1919 nasce a Trieste Ferruccio Valcareggi, di professione calciatore e allenatore. Dietro una grande gentilezza d’animo ed una riflessività profonda almeno quanto il suo mare, Ferruccio nascondeva un carattere fermo, deciso e volitivo. Il suo calcio veniva da lontano, era cresciuto nelle strade del rione Gretta, aveva calcato i campi fangosi battuti dalla Bora della Ponziana per approdare infine nella grande Triestina degli ultimi anni trenta. Lì, tra gli alabardati, trova altri giovani talenti come Rocco, Grezar, Colaussi e Pasinati. Sarà l’inizio di una promettente carriera che durerà quindici anni, trecentonovantacinque partite e novantuno gol e che farà tappa a Firenze, Bologna e Vicenza. Tra le sue tante storie di quel difficile periodo bellico, c’è anche spazio per un derby milanese. Lo ingaggia infatti il Milan, ma per una sola partita, non una a caso ma un affollatissimo derby contro i nerazzurri all’Arena, che si terrà nonostante le sirene e la concreta minaccia dei bombardamenti. Vincerà il Milan e Valcareggi incasserà un premio di 650 lire. Valcareggi era un centrocampista inesauribile, bravo a suggerire il gioco ma anche a coprire, attento a tenere assieme i reparti senza sbilanciare troppo il baricentro del gioco. Uccio era un uomo d’ordine abituato a vedere il gioco dal campo, a individuare le eventuali soluzioni, a intuire le contromosse. Ecco perchè quando si accomoda in panchina dimostra sin da subito talento: è abile nel disporre gli uomini sul terreno di gioco stabilendo con loro un rapporto autentico, è misurato ed autorevole. Con i primi successi e le promozioni arrivano anche i premi e il Seminatore d’Oro. Artemio Franchi gli propone l’avventura con la Nazionale e lui accetta. Dopo la fallimentare spedizione inglese ai Mondiali del 1966, la Federazione gli affida il timone, all’inizio in coabitazione con il mago Helenio Herrera, poi da solo con una squadra da risollevare e ben poco tempo per preparare gli imminenti campionati Europei. Valcareggi riesce nell’impresa: infonde a quel giovane e talentuoso gruppo serenità e fiducia nei propri mezzi, irrobustisce la difesa, fa girare il centrocampo attorno ad una generosa linea mediana e libera tutta la fantasia e la potenza delle punte. Così, incredibilmente, la piccola Italia si scopre grande. Batte la Jugoslavia nella doppia finale e conquista il primo e unico titolo continentale. La squadra c’è. Ci sono grandi talenti come Riva, Boninsegna, Domenghini, Rivera e Mazzola. C’è pure lo spirito giusto. E’ l’age d’or del calcio italiano e, sotto la sua attenta guida, gli azzurri giocano un calcio sincero, rapido e di grande intensità. Solo il’infinito Brasile gli nega il titolo in Messico nel 1970. Valcareggi è il grande regista di quella squadra, ne è il padre spirituale e putativo, regola e controlla le tensioni, gestisce i turbulenti rapporti interni, calibra e stimola i fuoriclasse inventando pure la staffetta tra Rivera e Mazzola, cercando di trovare i giusti equilibri tra i reparti e le personalità. Ferruccio entra pure nella storia per la partita del secolo, il quattro a tre con la Germania che diventa subito leggenda. Ma da lì in avanti le cose si complicano, perchè i clan interni si rafforzano e non riesce più a tenere assieme tutte quelle spinte. La successiva spedizione ai Mondiali tedeschi è un mezzo disastro e Ferruccio chiude così la sua parentesi azzurra con un bilancio, un titolo Europeo e una finale Mondiale, di altissimo profilo. Per fortuna non smette di allenare. Grazie a Saverio Garonzi riguadagna una panchina in Serie A con l’Hellas e infila tre campionati leggendari, giocando sempre un calcio piacevole, robusto ed efficace grazie anche alle invenzioni della coppia d’attacco formata da Luppi e Zigoni. Poi ci sarà pure spazio per una stagione con la Roma e per un turbolento ritorno all’amata Firenze. Valcareggi è stato uno dei più grandi allenatori italiani, bravissimo nel gestire e modellare l’imponderabile materia umana, attento, intelligente e pacato nel tenere diversi talenti in gruppo, nel tutelarli e difenderli a scanso anche di qualche ruvida discussione con la critica. Ferruccio ha rappresentato un calcio elegante e viscerale, leggero e ispirato, signorile e misurato, pragmatico e ben piantato con i piedi a terra almeno quanto la sua smisurata passione per il pallone di cuoio e la nobile arte pedatoria.