Once in a lifetime: Ignazio Giunti

Il 10 gennaio 1971 muore a Buenos Aires, all’età di ventinove annni, Ignazio Giunti, pilota di professione. Ignazio era una promessa dell’automobilismo nazionale. Aveva iniziato a correre avanti con l’età, nel 1964, per pura passione, di nascosto dalla famiglia che lo voleva avviato ad un diverso futuro. Ma per Ignazio i soldi, i titoli e la carriera erano concetti relativi. Lui voleva correre. Voleva vincere le gare, voleva sfidare gli avversari in pista o in qualunque luogo potesse ruggire un motore. Così aveva cominciato a gareggiare dapprima nei trofei minori e nelle cronoscalate e, quindi, in pista, nel Campionato Italiano Turismo e in Formula Tre. Ignazio apparteneva ad una nidiata di straordinari talenti, come Spartaco Dini, Carlo Benelli, Andrea de Adamich, Luigi Rinaldi, Enrico Pinto. Rappresentava l’Italia da corsa, la migliore gioventù del volante che avrebbe percorso tutta la prima metà degli anni settanta salendo o scendendo dai primi tre gradini del podio. E Ignazio rispetto alla concorrenza aveva un pregio, perchè quasi sempre se li teneva tutti dietro. Nel giro di soli pochi anni divenne un asso imbattibile. Con i successi arrivarono anche fama, riconoscimenti e, soprattutto, le attenzioni dei maggiori team, come l’Autodelta, che schiusero finalmente le porte delle serie maggiori, della Formula Uno e, soprattutto, del Campionato Mondiale Sport Prototipi. Enzo Ferrari ne apprezza il talentuoso stile e ne coglie le potenzialità. Il drake lo mette sotto contratto per il prestigioso Mondiale Marche dove farà squadra con molti assi e promesse: Nino Vaccarella, Mario Andretti, Clay Regazzoni e Arturo Merzario. Il 1971 sarebbe stato l’anno buono e con la nuova Ferrari 312 PB avrebbe provato a contendere il titolo alle temibili Porsche 917. Ma il destino era pronto a mettersi di mezzo nel modo più tragico, assurdo e beffardo. Perchè alla prima gara, la 1000 km di Buenos Aires, mentre guidava la corsa, durante il doppiaggio di Parkes, all’uscita da una curva, si ritrovò improvvisamente davanti, ferma in mezzo alla pista, la Matra che Jean-Pierre Beltoise, esaurita la benzina, stava spingendo a mano per cercando di riportarla ai box, a dispetto di ogni buon senso e sotto gli occhi di commissari e del direttore corsa. L’impatto fu devastante e per Ignazio Giunti non ci fu scampo: la sua vettura colpì violentemente il posteriore della Matra finendo in mille pezzi e carambolando in fiamme per oltre duecento metri di pista. Quella di Ignazio fu una morte assurda che apparteneva purtroppo ad un mondo precedente, che ragionava ad una diversa velocità e che faceva ancora i conti con regole e consuetudini pericolose e superate. La sua tragedia suscitò sdegno e proteste in tutto il mondo e finì per assumere un importantissimo risvolto di carattere culturale e organizzativo. Grazie al “caso Giunti”, infatti, il settimanale AutoSprint costrinse la Federazione Internazionale a cambiare le regole impedendo per sempre ai piloti di spingere in pista le vetture ferme o in panne. Fu un passaggio epocale, come ricordò Merzario: “L’incidente di Giunti fu un episodio in cui il mondo delle corse cominciò seriamente a riflettere sugli errori compiuti. La posizione di Marcello Sabbatini di AutoSprint fu decisiva e servì a questo, a rendere più consapevoli gli addetti ai lavori. Per il resto Beltoise fu vittima delle circostanze. In quei tempi, se non riportavi in qualsiasi modo, anche a spinta, la macchina ai box, il tuo team ti fucilava.