Once in a lifetime: Osvaldo Soriano

Il 29 gennaio 1997 muore a Buenos Aires Osvaldo Soriano, di professione scrittore e giornalista. Tra tante, due sono le cose che la magica penna di Soriano mi ha regalato, il senso della fuga e il respiro delle sue storie. Osvaldo rimane un capitolo a parte nella letteratura sudamericana del Novecento, per la cifra stilistica, il ritmo, le talentuose intuizioni, l’alma profonda e i molteplici piani dei suoi racconti. Soriano era una persona saldamente ancorata al reale, che viveva il quotidiano ma di cui però dava sempre una lettura altra, fantasmagorica e bislacca, lavorando sugli aspetti più singolari. Perchè, Osvaldo, le lettere, più che frequentarle nel silenzio delle biblioteche o dalle aule delle accademie, le batteva sui tasti della macchina da scrivere raccontando con occhio ironico e appassionato le mille vite porteñe dei vicoli sudati che incrociava. Soriano era un cronista che lavorava di storie e stile. Con le storie cercava di campare, con lo stile si levava delle soddisfazioni: governava magistralmente la fine arte dell’aggettivo, faceva rimbalzare le parole come fossero misurati passi di tango o una serenata di Gardel, modellava il trapassato come fosse Hemingway o Chandler. Osvaldo si muoveva tra le trame di un immaginario popolare e straordinario, fatto di artisti e criminali, ribelli e fuggitivi, fantasmi e detective. La traiettoria che imprimeva alle cose era sempre obliqua e irregolare, come i destini degli sconfitti che raccontava. E poi, per quanto cercasse rifugio nella metafora e nel fantastico, finiva per parlare di cose reali, di potere, di giustizia, di cinema e, soprattutto, di calcio, ma pur sempre da un punto di vista laterale e spesso triste, solitario y final. Soriano è stato la coscienza critica, poetica e surreale di un paese soffocato dalla dittatura e tormentato dalla scomparsa della libertà. “El Gordo” rimarrà per sempre un fantastico caso letterario, un insonne con il vizio del paradosso, un cronista con l’hobby della poesia, un sognatore vinto dalla nostalgia e dalla tenerezza di un mondo povero, antico e malinconicamente allegro. “Uno scrittore è sempre solo, come un maratoneta. Da questa solitudine deve prendere tutto: musica celeste e rumori di pancia. E anche la peregrina illusione che un giorno qualcuno decida di aprire il suo libro per vedere se vale la pena rubare ore di sonno con qualcosa di tanto assurdo e pretenzioso come una pagina piena di parole”.