Once in a lifetime: Thelonious Monk

Il 17 febbraio 1982 muore a Weehawken, nel New Jersey, Thelonious Sphere Monk, di professione pianista. Monk era un essere speciale, fragile e delicato, malato e lunare. Viveva di pause e di vuoti, di ritmi sincopati e di ritardi, di silenzi e accenti imprevedibili. Perchè Monk era il jazz, la sua anima più impertinente e imprevedibile. Thelonious aveva sviluppato uno strano rapporto con la musica, particolare almeno quanto i suoi rinomati copricapi e il suo male, una maledetta sindrome bipolare. Gli capitava infatti di perdersi tra rompicapi frastagliati e armonie destrutturate, nascondendo le note tra dissonanze, cluster e pause, salvo poi sciogliere soprendentemente il filo delle trame in frammenti melodici di pura poesia emotiva. La sua musica, la sua personale strada, era pura provocazione, uno spigoloso attacco a regole e canoni, un inno alla più assoluta libertà. Monk era sempre andato da solo, smarcandosi da tutti, sin da quando gli era piombato in casa una specie di pianoforte a cui aveva subito voluto bene. Era cresciuto all’ombra delle grandi orchestre e dello swing. Ma tutto quell’ordine, tutta quella perfetta simmetria, non faceva per lui. Perchè Monk cercava altro, sentiva che c’era un mondo nuovo che stava emergendo dalle backstreets. Perchè c’erano Bird e Gillespie, Powell e Coltrane che cominciavano a colorare la notte e a incrociare da quelle stesse parti, portando in giro quel be-bop che nascondeva inquietudine e disagio, malinconia e eccessi. Le chiavi di quel mondo maledetto e irregolare erano gli standard. Su quel confine si respirava la nuova frontiera, il futuro. Lì si giocava la sfida della rielaborazione, il gioco dell’eterna scomposizione tra ritmo e armonia. Ma Thelonoius faceva il prezioso, componeva in proprio andando sempre contro corrente. Brani obliqui e vorticosi, partiture sbilenche di notturna bellezza, che nascevano peraltro sempre a notte fonda, ” ‘Round Midnight”, spesso e volentieri con la luna alta nel cielo, e che sembravano arrivare da un altro pianeta: scherzi misteriosi, giochi, buffe boutade, inciampi maliziosi, fragili e aerei come fossero appoggiati sul nulla di una nuvola. Monk non componeva. Monk ammaestrava azzardi sonori, li mescolava a tocchi, magie e stravaganze, ci disegnava un mondo tutto suo, ci disseminava segnali e rintocchi, buoni per perdere l’orientamento, buoni per rimanere bambini. Quando si esibiva dal vivo si prendeva tutti i suoi tempi. Viveva la notte come gli veniva. Capitava pure che si dimenticasse della gravità e della sua imponente stazza, dei suoi cento e più chili, e che si alzasse dal piano, magari nel bel mezzo di una cascata di note, per abbandonarsi al ballo e ad un incredibile ed agile gioco di piedi, antico e primitivo, che interrompeva solo per inseguire il sogno e riprendere a martellare ritmi irregolari e maleducati. A volte, soprattutto negli ultimi anni, prima che quel male oscuro se lo portasse via, capitava anche che scendesse dal palco tra un atto e l’altro e infilasse la porta del locale, che se ne andasse a sedere sulle panchine del parco a dare del tu alla luna. Quando lo andavano a ripescare chiedendogli con cortesia se si era perso, lui sorrideva e rispondeva che erano loro quelli che avevano perso la strada.