SLO Slow Listening Organization > Cosa c’è dietro SLO?

Slow Listening Organization (SLO) è una risposta all’involuzione “patologica” delle modalità dell’ascolto digitale della musica, un’iniziativa di entertainment culturale che si prefigge lo scopo di restituire il giusto valore emotivo alla musica e alla sua fruizione, a dispetto della spessa maionese di algoritmi, frequenze, curve, sigle, bitrate e numeri che la tiene prigioniera.

Non si tratta di una burla, un’ironica terapia di gruppo, uno scherzo contro il tempo o peggio ancora di un tentativo antistorico di resistere al progresso tecnologico.
E neppure di una pur confortante botta di nostalgia o di un rassicurante filtro da mercatino dell’antiquariato vintage del bel tempo andato.
Tutt’altro!
SLO è qualcosa di più, perché siamo convinti che proprio dal vinile e dall’incerto incedere della puntina sui suoi solchi possano ancora passare il presente e il futuro della musica e del modo in cui la si ascolta ed entra a far parte integrante delle nostre vite.
Il futuro del suo valore, insomma, e della possibilità che essa rimanga ancora per decenni una salda e vivida espressione culturale, salvandosi dall’ingenerosa prospettiva di diventare un innocuo intrattenimento pubblicitario.
Il futuro della musica, non quello del mercato musicale, perché, al di là di facili entusiasmi, la quota di mercato del vinile, nella realtà, è men che marginale dal momento che il dato di vendita non supera lo 0,4% del totale. Questioni di virgole, insomma.
Un futuro comunque più concreto e tangibile di quello raccontato dalle fragili e patinate icone cool, figlie del malinconico snobismo hipster, che fa del maneggiare vinile una cosa sempre “in” e “assolutamente imprescindibile”.

Nel 2002, in un’intervista rilasciata al New York Times, David Bowie dichiarò che la musica sarebbe diventata come l’acqua corrente o l’elettricità. Come sempre Bowie aveva letto il futuro ben prima di tanti altri colleghi. Solo l’anno precedente Apple aveva presentato il primo iPod. La strada era quindi segnata e, come sempre, Bowie aveva ragione.

Se i cd sono il nostro passato e le musicassette sono consegnate ai retaggi della memoria collettiva, i vinili rientrano ormai in una sfera sostanzialmente archeologica.
Eppure, negli ultimi tempi, proprio i vecchi e ingombranti dischi neri di plastica si sono concessi un lifting commerciale.
I dati della BPI (British Phonographic Industry) tracciano per il primo semestre di quest’anno un netto incremento di vendite del vinile analogico, soprattutto tra gli ascoltatori di età inferiore ai 35 anni. L’exploit più significativo si registra nel segmento del pubblico under 25. Sorprendentemente sono proprio i “nativi digitali” a dichiarare di preferire i vecchi long-playing a trentatré giri ai cd e ai prodotti digitali, per la “crudezza” del suono, per la grafica di copertina, per la collezionabilità del prodotto e per la soddisfazione tattile offerta dal vinile. Altrettanto sorprendentemente, dal sondaggio emerge poi che il 27% di loro confessa di non “suonare” mai i vinili che possiede, preferendo acquistare e ascoltare – per non rovinarli – una versione in cd (molti ellepì di nuova emissione, d’altro canto, vengono oggi venduti con un codice utile a scaricare la corrispondente versione mp3).
Efferatezza dell’accanimento consumistico o intelligente gestione flessibile di supporti e formati? Il dilemma è destinato a permanere, per la gioia delle case discografiche e del “nerdismo” più radicale.

In questo strano settore, una volta tanto, l’Italia non sfigura affatto. Il nostro è infatti considerato il settimo mercato mondiale del vinile, il quarto in Europa.
Ciò nonostante, la realtà commerciale è tutt’altra, dal momento che il digitale (download e streaming) ha da tempo superato il mercato fisico e tradizionale del cd e costituisce da solo più del 40% del mercato musicale.
Giusto per aumentare la sensazione di liquidità e smaterializzazione sonora, è lo streaming a farla da padrone. Servizi come Deezer, Spotify o iTunes Radio, regno incontrastato della playlist di massa, compilata, premasticata e predigerita, affittano a un crescente numero di utenti consistenti pacchetti di musica e note, e non certo per tutelare i diritti dei musicisti, quanto piuttosto quelli delle multinazionali. Una sorta di paradiso per i gestori dei servizi: paghi per ascoltare o affittare brani pescati da un’enorme biblioteca digitale, senza che l’autore o l’editore possano reclamare nulla più che una contenuta royalty per ogni singolo passaggio. Lo stream è quindi la corrente, il flusso di una nuova rivoluzione commerciale, la riprova tangibile che i grandi gruppi hanno riconquistato quell’originaria influenza che le etichette e gli artisti indipendenti gli avevano strenuamente conteso in questi ultimi trent’anni.

Secondo i guru dei new media la fruizione di musica un tempo era solo passiva; si comprava un vinile e lo si ascoltava in camera, si acquistava un cd e lo si ascoltava in macchina. Ora invece la fruizione è diventata più attiva, e il modo di vivere la musica è completamente cambiato divenendo un fatto sociale e condiviso.

SLO non è per niente d’accordo.
Sarebbe forse sufficiente riflettere sulla reale e differente qualità dell’ascolto, sull’attenzione e sulla dedizione che il “vecchio” vinile continua a richiedere, sostanziale antitesi dell’ascolto distratto, parcellizzato e alienante della musica “portatile”. I vecchi dischi reclamano tempo, attenzione e dignità. Certo che sei comunque libero di fare altre cose mentre il vinile sta girando, ma quel piatto tondo ha tutta l’aria di essere un’attività primaria, non una mera tappezzeria o uno sfondo per svolgere altre più cospicue attività.
Bisognerebbe ragionare sul reale significato della socialità artificiale indotta dalle reti e da internet, così come sarebbe opportuno discutere della loro illusoria libertà, degli strumenti ben oliati di condizionamento commerciale che stanno dietro le architetture dei social network, moderni strumenti per testare gusti e gradimenti, per raccogliere viralmente consensi e decretare quindi il successo o meno di un prodotto musicale. Non attraverso uno stimolante e innovativo processo creativo ma, più banalmente, attraverso spirali di condivisioni e numeri, in una celebrazione virtuale dell’omologazione sonora. Roba da ragionieri del brivido.

E le prospettive risultano ancora più insidiose, perché è evidente che il cerchio si autoalimenta pericolosamente, perché continuare ad ascoltare ciò che piace “alla media del pubblico” alla fine cristallizza generi e stili, soffoca e scoraggia le intelligenze, prosciuga la creatività, accredita della musica l’idea che sia solo un’espressione di codici e numeri, compressi e divisi in compartimenti rigidi e stagni. Alla faccia delle belle teorie e dei bei sentimenti, e pure dei grandi pensatori del secolo scorso, di Marshall McLuhan o di Chris Anderson, del suo “tutto gratis” e della sua “coda lunga”.
Questo ipotetico 2.0 musicale finisce fatalmente per non produrre alcun significativo feedback se non quello ossessivamente stimolato, standardizzato, codificato e ricercato dai produttori, in una stretta logica di servizio commerciale. Tutto ciò non ha nulla a che fare con la formazione di un libero gusto musicale, non crea alcuno scambio, non regala sane provocazioni, non stimola pensieri laterali e rischia di non leggere più il presente e tutti i suoi cambiamenti, frutto di improvvise rotture degli schemi, drastiche e coraggiose.
Del mondo musicale del 2.0 rimane solo un numero, con un punto e uno zero a seguire.

La cruda e triste realtà è che dietro la fantomatica rivoluzione digitale, dietro la grande trasformazione della musica c’è, anche e soprattutto, un massiccio trasferimento di risorse, capitali e proprietà dalla storica industria manifatturiera – che aveva accumulato nei decenni un enorme bagaglio di competenze, capacità manuali e professionalità attraverso strutturate filiere produttive e commerciali ed un ampio spettro di soggetti titolati (produttori, manager, A&R, talent scout, etichetta discografiche) – a compagnie che erogano meri servizi di comunicazione, a gestori telefonici e a motori di ricerca, ai colossi dell’internet e dei “big data” che hanno un diverso profilo imprenditoriale e che, soprattutto, fanno un diverso mestiere, inseguendo dividendi e obiettivi che certamente poco hanno a che fare con la produzione di musica o con una moderna tutela dei diritti di autori e musicisti.
In questo contesto, il consumatore muta le proprie abitudini, si rassegna a farsi anche lui liquido come la musica che ascolta. E questo è un bel problema.

Ma il dramma vero finisce per colpire la musica stessa, gli artisti. Non quelli affermati, che affidano la sopravvivenza alle elefantiache produzioni dal vivo o ai maghi del merchandising. Bensì i più giovani, proprio quelli che andrebbero invece tutelati e sostenuti non fosse altro perché, almeno all’anagrafe, sono davvero il futuro della musica. La band emergente, priva ormai di punti di riferimento, si rassegna così ad ingrossare la lunga fila dei fornitori artistici, degli autori dei brani prêt à télécharger, pronti da scaricare, senza alcuna promozione reale, senza poter nemmeno contare sul supporto di un concetto visuale, di una immagine o di qualche essenziale nota biografica. Affidandosi solo alla musica e alla propria bravura, destinata sì a finire negli scaffali virtuali di un’immensa biblioteca digitale, ma senza alcuna concreta possibilità di essere ascoltata e apprezzata, se non per qualche caso fortuito o per uno strano scherzo del destino.
Così l’artista, nell’attesa fideistica che si compia l’agognato miracolo, ingrossa le fila del mercato della musica digitale, ben sapendo che la sua fatica sarà destinata, nel migliore dei casi, a fungere da richiamo o da spot sonoro, buoni per attirare un po’ più di pubblico al prossimo concerto, per chi ha ancora la fortuna di farli.
Insomma, per chi ha l’esigenza di farsi conoscere lo streaming, il download, il digitale in genere, che rimangono comunque una straordinaria opportunità, si risolvono nei fatti in un imbroglio, in un amaro inganno. Tutta quella propagandata libertà si trasforma ordinariamente in una mera illusione, in un’eterna promessa non mantenuta.
Perché poi di questo bisognerebbe discutere.
Perché la rete, anche quando è libera, ha sempre un prezzo e una qualsiasi opera d’ingegno pubblicata, anche e soprattutto se postata gratuitamente, lavora e fa lavorare tutto il carrozzone in direzione di un solo scopo: vendere. Servizi, abbonamenti e offerte. Che questa poi sia anche musica, è tutta un’altra storia.
Perché alla fine la grande facilità e l’enorme potenziale disponibilità dei materiali musicali finisce fatalmente per non materializzarsi, perché non riesce a passare dal supremo “imbuto” che seleziona e filtra invece sempre e solo i gruppi famosi e conosciuti.
Nella musica liquida l’artista emergente, illuso dalla libertà degli accessi e della disponibilità, fatica ancora di più ad emergere, e il mercato digitale si trasforma così in un mercato per vecchi e già affermati artisti.

Ecco perché fermarsi ad ascoltare, prendendosi un tempo e uno spazio per farlo, è sostanzialmente un atto di critica ribellione.
E` un primo modo per rimettere la musica al centro di tutto.
E se poi lo si fa senza passare, una volta tanto, da un device, dal download e dallo streaming, è un ulteriore punto decisivo.
SLO passa proprio di qui, perché di qui siamo convinti che passi anche il futuro prossimo. Quello che ogni tanto ritorna dal passato, magari in forme diverse e creative.
Perché la cultura non è detto che debba essere solida o liquida, proprio come le idee ed i pensieri.
E senza dimenticare mai, infine, che il disco in vinile è solo una piastra circolare incisa a partire dal bordo esterno, con un solco a spirale, destinato alla riproduzione di suoni per mezzo di un giradischi collegato ad un amplificatore.
Nient’altro.
“La tecnologia ha cambiato il modo in cui la musica suona, viene composta e fruita. Ha anche inondato il mondo di musica, che è infatti sommerso da suoni (perlopiù) registrati. Un tempo dovevamo pagare per la musica, o farla da noi: suonarla, ascoltarla e fruirla erano una cosa eccezionale, un’esperienza rara e speciale. Oggi l’ascolto è ovunque, mentre è il silenzio a essere la rarità che paghiamo e gustiamo”
David Byrne, Come funziona la musica, Bompiani, 2013