Once in a lifetime: Guido Monzino

Il 12 marzo 1928 nasce a Milano Guido Monzino, esploratore e alpinista per passione. La sua strada era stata tracciata molto prima di poterla solo intuire. Perché Guido, nobile di nascita, era un predestinato. Avrebbe dovuto prendere in mano l’azienda di famiglia, la Standa, in cui aveva fatto gavetta arrivando ad assumerne il ruolo di direttore attorno alla metà degli anni sessanta. Il suo era un destino scritto da tempo come la sua brillante carriera, una traiettoria naturale tracciata in anni in cui non era pensabile mettere in discussione gli obblighi di famiglia e il disegno del patriarca. Ma la sua vita aveva cominciato a prendere una direzione più incerta sin da quando, eravamo solo alla metà degli anni cinquanta, aveva conosciuto Achille Compagnoni, fresco conquistatore del K2, finendo per scalare con lui, per vezzo e scommessa, il dente affilato del Cervino. Quella ascesa lo aveva letteralmente stregato. I silenzi, la fatica, i ghiacci, le corde e l’aria sottile avevano incrinato e infranto ogni sua certezza e gli avevano prepotentemente offerto una prospettiva futura del tutto inedita, straordinaria e appassionante. E da quel giorno il suo orizzonte mutò drasticamente. Guido non è uno scalatore, non è un uomo della roccia, non apre nuove strade né sale lungo vie impervie e dirette, ma, ciò nonostante, è un’anima d’alta quota, uno spirito votato all’avventura, un provetto organizzatore di spedizioni e imprese. Da quel giorno se ne conteranno 21, a caccia delle più alte vette delle Alpi, della “sua” fatata Valtournenche, delle Ande, dell’Himalaya o delle montagne selvagge del continente africano e della Groenlandia. Monzino ama l’avventura. Progetta e prepara meticolosamente, con grande dispendio di uomini e risorse, ogni suo viaggio. Il suo nome si lega in particolare a due spedizioni, quella del 1971, che lo porta nella fredda distesa dell’Artico alla conquista del novantesimo grado di latitudine nord senza mezzi artificiali, e quella del 1973, con cui pianta per la prima volta il tricolore sulla vetta dell’Everest. Quella del Polo Nord fu un’impresa epica e “antica” perché lui, Minuzzo e Carrel percorsero 750 chilometri a piedi sul pack con temperature rigidissime inseguendo idealmente le orme di Robert Peary e Matthew Henson nella loro marcia del 1906, ma quella dell’Everest fu un capolavoro di organizzazione tecnico-logistica che scomodò, per la prima volta nella storia, un poderoso apparato di mezzi. Monzino non badò infatti a spese e mobilitò nove C-130 della 46° Aerobrigata con cui trasportò a Kathmandu oltre 100 tonnellate di materiali e ben due elicotteri. Uno di questi stabilirà poi il record di altitudine, atterrando sui ghiacci eterni della “montagna sacra” ad oltre 6500 metri. La spedizione si componeva di150 tra italiani e sherpa, 2000 portatori e centinaia di yak. L’attacco alla cresta finale dalla sella del Colle Sud venne sferrato con successo tra il 5 e il 7 maggio 1973. Seguirono infinite polemiche per la quantità dei mezzi utilizzati, per l’eccessivo e dispotico controllo di Guido, per il rigido inquadramento militare dei suoi uomini, ma, malgrado le discussioni, il Conte Monzino riportò a casa sani e salvi tutti i suoi uomini unitamente a una ricca raccolta di dati scientifici. La sua fu l’ultima delle grandi spedizioni italiane e il suo nome divenne, da quel giorno, sinonimo di tenacia, avventura e capacità organizzativa. Monzino era un signore ma non era per niente una persona facile nè accomodante. Aveva un carattere forte, deciso e di carta vetrata. Si infiammava facilmente e cadeva spesso preda di attacchi collerici. Ma aveva anche grandi pregi. Perché Guido pensava sempre a voce alta, era leale, diretto e coraggioso, teneva ai suoi uomini ed era pronto ad ogni sacrificio pur di evitare qualsiasi perdita. Guardava ogni giorno ai rischi da cui era irresistibilmente attratto ma, al contempo, cercava di prevenirli, evitando ogni più tragica conseguenza. E questo, si sa, in alta quota è l’atteggiamento che trasforma in leggenda gli scalatori più temerari.