Once in a lifetime: Ilaria Alpi

Il 20 marzo 1994 muore assassinata in un agguato a Mogadiscio Ilaria Alpi, giornalista per lavoro e passione. Il mestiere del giornalista è uno solo, quello di porre domande. In primis a se stessi e, poi, soprattutto, anche agli altri. Non è un mestiere facile né tantomeno semplice. Dipende dall’intensità e dal modo con cui lo si svolge, dalla serietà e dalla dedizione, dalla passione e dal distacco, dal profondo senso di curiosità e rispetto che nutriamo verso ciò che ci circonda. E’ un lavoro in cui l’unica regola è quella di non dare mai mai nulla per scontato. Fare il giornalista vuol dire formulare la seconda e la terza domanda, senza preoccuparsi se siano troppo dirette, irriverenti o scomode. E se le risposte non dovessero ancora arrivare, allora sarebbe necessario insistere ostinatamente scavando ancora di più alla ricerca di fatti e riscontri da porre in relazione all’interno di un perimetro ampio e articolato. Perchè fare il giornalista vuol dire ricostruire un piccolo significativo frammento di realtà. Questo era quello che faceva Ilaria. Questo era il suo mestiere, che svolgeva con intuizione, capacità e spirito di iniziativa in uno scenario geopolitico apertamente ostile, delicato e complesso, in un pericoloso e instabile avamposto regno di traffici e interessi, senza nessuna protezione da parte delle istituzioni, senza alcuno scudo o paracadute. Perchè Ilaria era formidabile nel seguire la pista, nel fiutare la scia di allusioni e reticenze, nel tracciare i percorsi del denaro. Ilaria non rimaneva chiusa in una stanza d’albergo a telefonare in redazione i suoi pezzi. Ilaria non stava a centinaia di chilometri dal fronte per raccontare i bombardamenti. Ilaria era sempre esattamente dove doveva essere. Ilaria non dava ascolto agli avvertimenti di qualche zelante attaché d’ambasciata. Perchè Ilaria non aveva paura di stare sulla notizia, di rincorrere con ostinazione le persone giuste, a scanso anche di pestare qualche piede di troppo o di sollevare un po’ di polvere. Quel rischio era il suo mestiere, quello che svolgeva ogni giorno, con coraggio e passione, in Somalia come a Roma. La storia di Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin non è ancora stata scritta sino in fondo. E’ ancora lì che attende di conoscere i nomi di esecutori e mandanti. Perchè la storia di Ilaria e Miran non è quella di una banale rapina finita male, non è quella raccontata da improbabili inchieste parlamentari o rivelata da qualche discusso faccendiere legato ai servizi. La storia di Ilaria e Miran è quella di un barbaro omicidio su commissione, di un debito di sangue pagato da qualche “Signore della guerra” a qualche funzionario influente. Ha lo stesso sapore della polvere da sparo e dei kalashnikov, lo stesso peso dei container e dei bidoni di rifiuti tossici abbandonati in fondo al mare davanti alle coste di Mogadiscio. E’ il frutto di uno sciagurato scambio, di una transazione, di un contratto come se ne fanno ogni giorno in nazioni opache e in territori d’ombra, da est a ovest, da nord a sud. La storia di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin è una storia di meschini interessi, di traffici illeciti, di depistaggi, di inquinamenti e di servizi segreti. Ed è anche la storia di due genitori caparbi e coraggiosi, pronti a qualunque cosa pur di far luce sulla morte della loro figlia. E’ un’ordinaria vicenda di giustizia lenta e denegata, è un’ignobile cronaca fatta di politici disinteressati e incompetenti, di leggerezze e furbizie, è il solito “mistero” irrisolto. E’ una storia italiana, forse ben più semplice di quella che ci è stata sin qui venduta. Ma, soprattutto, quella di Ilaria e Miran è la storia di chi ha fatto fino in fondo il proprio mestiere, di chi non ha mai avuto paura di fare la seconda e la terza domanda senza piegarsi a pressioni o minacce. Il suo tragico epilogo e i vent’anni trascorsi sin qui senza utili risposte sono una macchia che continua a sporcare la coscienza di tutti.