Once in a lifetime: Gustavo Giagnoni

Il 23 marzo 1932 nasce a Olbia Gustavo Giagnoni, di professione calciatore e allenatore. Quello che il giovane Gustavo era solito prendere a calci nel campetto dell’oratorio era un pallone consumato e male in arnese. D’altro canto nel suo futuro non ci sarebbe stato spazio per il gioco. La famiglia lo aveva infatti spedito, ancora ragazzino, a Tempio in seminario, a seguire la vocazione, a prendere i voti, quelli buoni per dire messa e salvare le anime dei peccatori. Ma, non appena poteva, Gustavo abbandonava il refettorio, si rimboccava la tonaca e rimaneva ore ed ore ad ammaestrare il pallone con estrema perizia al cospetto di compagni e insegnanti. Furono proprio quella speciale bravura e la tenacia con cui contendeva la sfera ad una selva di gambe avversarie a fargli prendere un’altra strada. E così Giagnoni passò dalla prospettiva di salvare le anime a quella di marcarle per spazzare via il pallone dall’area di rigore. Dopo gli esordi con l’Olbia il destino lo condusse a Mantova in tempo per vivere una delle più belle stagioni della squadra lombarda. Con i virgiliani Giagnoni rimarrà ben sette anni conquistando 3 promozioni e trascinando la squadra sino nell’olimpo della Serie A. Sono i magici anni del “Piccolo Brasile” della coppia Fabbri – Allodi, di Angelo Sormani, Tony Allemann, Dino Zoff e Karl-Heinz Schnellinger. In campo Gustavo sembra spiritato: corre sino a quando ha fiato nei polmoni, tampona ogni iniziativa avversaria, spezza le trama offensive e lotta alla morte su ogni pallone diventando un carismatico trascinatore di quelle formazioni. Mantova gli rimane nel sangue e nel cuore anche quando decide di farla finita con quella vita da mediano. Proprio da lì Gustavo inizia infatti l’avventura di allenatore, conquistando immediatamente salvezze e promozioni. Ma è a Torino che Giagnoni entra nella leggenda. Merito non solo di una serie di stagioni di altissimo livello, ma anche del suo singolare copricapo. Perchè succede che un amico mantovano gli regali un caldissimo colbacco che Gustavo finisce casualmente per indossare quando va a sedersi in panchina, giusto per proteggersi dall’umido e dal freddo. Con quel suo colbacco il Toro comincia a vincere e lui, un po’ per gioco, un po’ per scaramanzia, decide di non smetterlo più sino alla tarda primavera. Giagnoni diventa così “l’uomo del colbacco”, un’icona dell’immaginario mediatico di quel calcio. Le sue squadre masticano un football sincero e grintoso. Il Torino di quegli anni è una formazione ostica, quadrata, sanguigna e affidabile sia nel controllo difensivo che nelle trame di centrocampo. I granata sfiorano per poco lo scudetto che finisce invece sulle maglie della Juventus. Durante un nervosissimo derby Causio lo provoca ripetutamente e lui reagisce stendendo il “Barone” con un plateale gancio e divenendo così un idolo della Maratona. Malgrado qualche eccesso umorale le sue quotazioni continuano a salire e, nell’estate del 1974, Buticchi, alla disperata ricerca di risultati, lo convoca al Milan aprendogli finalmente le porte del salotto buono del calcio italico. Ma Gustavo, il “cosacco”, non vi rimarrà a lungo per la crescente insofferenza di Rivera e compagni, ben poco disposti a digerire le sue maniere decise e le sostituzioni. Gustavo continuerà ad allenare con serietà e impegno sino ai primi anni novanta tornando nella sua Sardegna, a Cagliari, dove però conoscerà anche l’onta di una retrocessione. Giagnoni rimane, ancora oggi, a distanza di anni, un punto fermo di quel calcio umido, nebbioso e operaio. La sua straordinaria passione e quel suo viscerale temperamento raccontano il complesso codice di valori che ha fatto del calcio uno degli sport più affascinanti di sempre.