Si fa presto a dire innovazione …

Confesso di essermi stancato di ascoltare le sirene dell’innovazione. Faccio infatti fatica a rassegnarmi alla realtà di un paese che si convince di praticare opzioni concrete solo perché, con il consueto e drammatico ritardo che affligge tutti i suoi principali driver, è infine arrivato a discuterne, con grandi enfasi, nei dibattiti esclusivi e nel solito perimetro dei salotti televisivi.

In questi ultimi mesi il tema della crescita e dello sviluppo è diventato un mercato dell’ordinaria vanità, un argomento brillante di conversazione e, soprattutto, un claim propagandistico a cui piegare, con disinvoltura e rara inconsistenza scientifica, i più stravaganti contributi, in un’orgia di dati, analisi, rilevazioni, diagrammi e curve prospettiche che rimandano una tragica, pittoresca e singolare idea di futuro.
A frequentare il dibattito o scorrendo le pagine dei principali quotidiani economici si potrebbe anche pensare che questo paese abbia, quindi, finalmente colto le grandi prospettive che da anni lo attendono impazientemente al varco.
Ma purtroppo sappiamo tutti bene che non è così.

Il modo in cui si discute d’innovazione è, ancora una volta, lo specchio della nostra critica condizione.
E’ figlio naturale dell’incapacità di fare i conti sino in fondo con la grave inadeguatezza e la responsabilità delle governance.
E’ il frutto di un approccio culturale e formativo arretrato che ci distanzia clamorosamente da tutti i principali partner europei.
E’ la conferma del nostro costante declino che ormai si intreccia alla grave crisi della rappresentanza e della mediazione sociale.
I nostri principali snodi meriterebbero di essere letti in un’ottica più ampia e declinati lungo assi strategici che affrontino tutte le dinamiche globali.
I nostri irrisolti problemi ci implorano di valutare le conseguenze delle grandi trasformazioni in atto, ci invitano a sperimentare scelte e opzioni su terreni diversi da quelli praticati sin qui, sfidando apertamente schemi, convenzioni e quella furbesca superficialità con cui si continuano a giustificare zone grigie e rendite di posizione.
Ci spronano a metterci in gioco, discutendo, condividendo, partecipando e sviluppando argomenti che conseguano risultati immediati sui territori e negli ecosistemi.
I critici più attenti parlerebbero, a ragione, di radici antiche, di ritardi secolari, di una dinamica bloccata da diversi decenni, di un sistema che non ha mai nemmeno lontanamente considerato di premiare coraggio, idee e creatività a dispetto delle reti informali e delle convenienze.
Ma non è solo questo.

Perché è sempre più netta la sensazione che, ancora una volta, dietro questi temi si celi l’inconfessabile voglia di sottrarsi al crudo dato di realtà, aderendo alla comoda scorciatoia offerta da favolistiche narrazioni del presente e del futuro, probabilmente copiate da qualche manifesto giovanilista da start-up, realisticamente, ben lungi dall’invertire significativamente le tendenze in atto.
Perché a frequentare le favole talvolta ci si fa del male.
Perché non si valuta appieno la potenzialità ed il ruolo nevralgico delle scelte di governo, perché non si ascolta l’urgente necessità di interventi legati alla promozione e allo sviluppo che finalmente privilegino interlocutori attendibili, risultati e qualità.
Come se l’epopea della Silicon Valley fosse il risultato di qualche estemporanea trovata di qualche geniale ragazzino e non, invece, il frutto di un lungo, continuo e massiccio trasferimento di investimenti, capitali e risorse.

Forse sarebbe il caso, prima di cominciare a tarare la pressione degli pneumatici, di decidere almeno su quale bicicletta vogliamo pedalare.
Perché se non sappiamo leggere con evidenza e rigore il futuro presente non potremo certo elaborare prospettive di ampia e lunga durata.
Perché se non ripartiamo dai fondamentali, dalla voglia di provare, sperimentare e, magari, pure di sbagliare, non saremo mai in grado di affidare al futuro alcuna plausibile idea progettuale.
Ed è qui che emerge, con tutta evidenza, l’irrisolta questione di fondo, quella culturale, la chiave di tutti i nostri approcci, delle nostre attitudini, quella che sta condizionando in profondità la coscienza e l’immaginario critico, creativo e produttivo di questo paese.
Perché il tema dell’innovazione non può essere solo patrimonio dello sviluppo tecnologico, non è materia di esclusiva pertinenza della rivoluzione digitale, le cui potenzialità peraltro continuano a essere straordinarie e ben lungi dall’essere anche solo intuite dal contesto produttivo.
Non può solo costituire un pur rilevante capitolo dell’incompiuta “Agenda Digitale”.
Perché l’innovazione e le sue mille derive sono invece strettamente legate al modo di sentire e vedere il mondo che ci circonda.
Perché rappresentano il canale con cui possiamo attribuire un significato alle cose e alle nostre attività.
Perché l’innovazione viene davvero prima di tutto.
Perché è ciò che ci permette di trasformare un’idea, una traccia e un’intuizione in una concreta opzione.
Perché, soprattutto, l’innovazione non può essere derubricata al rango di parola d’ordine o, come insinuano i tavoli tecnici dei brillanti pensatoi ministeriali, a “nuova modalità” con cui i rigidi e ingessati apparati della produzione, dei servizi e della cultura si apprestano a continuare ad operare come hanno sostanzialmente fatto sino a qui.
Perché l’innovazione non è la spinta decisiva a risolvere tutti i nostri problemi.
Anzi, in questi termini, proprio l’innovazione rappresenta il nostro principale limite, il vero ritardo al cospetto del resto del mondo.
Il tempo a nostra disposizione è ormai prossimo a scadere e, fuor di retorica metafora, con buona pace di novelli maître-à-penser, improvvisati geek, politici rampanti e inossidabili capitani d’industria, le sfide per dirsi vinte devono almeno essere colte.
Sino in fondo.
Diego Alverà
www.diegoalvera.it