Once in a lifetime: Ferenc Puskás

Il 2 aprile 1927 nasce a Budapest, nel cuore di uno dei suoi popolosi quartieri, Ferenc Purczeld, in seguito Ferenc Puskás Biró, di professione calciatore. Il suo nome evoca stagioni leggendarie e lontane. Perché Ferenc, che aveva cominciato a prendere a calci un pallone nella polvere sotto casa, ha vissuto in prima persona l’epopea calcistica di una delle più grandi squadre europee, la Honvéd, singolarmente sconfitta dagli avvenimenti e dalla storia e non dagli avversari. In quella squadra Puskás aveva cominciato a giocarci sin dall’età di sedici anni. Perchè era la squadra del  luogo dov’era cresciuto, delle strade contorte in cui aveva rincorso la sua ombra e delle tante piccole piazze dove il pallone rimbalzava almeno fino a quando c’era luce per calciarlo. Si chiamava Kipest ed era la squadra del suo quartiere. All’indomani della liberazione quel club venne letteralmente “fagocitato” dal regime e solennemente ribattezzato Honvéd, in omaggio ai soldati di fanteria che avevano combattuto sul fronte italiano della Prima Guerra Mondiale. La Honvéd diventa così una sorta di icona, di simbolo della nazione, ed in quegli anni cinquanta domina campionato e coppa raccogliendo titoli a ripetizione. Sono anni duri e difficili perché l’Ungheria è rimasta sotto la rigida influenza sovietica ed i suoi confini si sono trasformati in barriere invalicabili. Ma, sull’onda delle vittorie del suo club e della nazionale, la mitica Aranycsapat, per Ferenc e compagni quelle frontiere si fanno mese dopo mese porose e permeabili. E’ così che Puskás e la nazionale guadagnano il mondo in veste di pregiati testimonial di una campagna propagandistica di regime. Ferenc gioca con la maglia numero 10 ma in campo si muove come un centravanti di manovra, spaziandovi liberamente in buona compagnia di Nándor Hidegkuti, Zoltán Czibor e Sándor Kocsis, con i quali compone uno delle più temibili linee offensive dell’intera storia del pallone. Grazie ai suoi gol la nazionale magiara diventa la “squadra d’oro”, la più forte del continente, impartendo sonore lezioni di calcio a tutti, umiliando persino i maestri inglesi. L’Ungheria è squadra vera, compatta e veloce. Gioca un calcio moderno e offensivo, una sorta di “calcio totale” ante litteram. Le squadre avversarie, se non trovano velocemente le contromisure, finiscono regolarmente per soffrire quei ritmi entrando in difficoltà. La nazionale magiara vince facile le Olimpiadi del 1952 ma buca clamorosamente, per un pizzico di ingenuità, un vistoso calo di energie e, forse anche, un eccesso di presunzione, la finale di Berna dei Campionati Mondiali del 1954, rimediando dalla Germania di Sepp Herberger la prima dolorosa sconfitta in cinquanta partite. Poi, sul più bello, arrivò l’inverno del 1956 e l’insurrezione del popolo ungherese, repressa nel sangue dai carri armati sovietici. In quei giorni di speranza e trepidazione Puskás si trova all’estero, in Austria, a Vienna, per una delle tante tournée. Alla notizia dell’invasione russa, così come altri compagni di una diaspora destinata a durare diversi decenni, lascia l’albergo e fa perdere le proprie tracce. Si stabilisce per un breve periodo in Italia, sulla costa ligure, ma non trova squadre disposte a tesserarlo anche perché la FIFA nel frattempo lo squalifica per il mancato rientro in patria. Due anni dopo quella carambolesca fuga firma finalmente per il Real Madrid, con cui arrivano anche trofei e titoli. Ferenc si ritrova in una squadra di assoluti fenomeni. Gento, Rial, Kopa, Santamaria e Di Stefano giocano a memoria e trovano in lui un ideale riferimento offensivo. Sono anni splendidi, perchè Puskás si inserisce bene nel gruppo trovando, quanto a prestazioni, un’invidiabile regolarità. Non c’è domenica che non vada in rete e l’affetto del pubblico madridista cresce almeno quanto le sue forme, schiave di un irresistibile amore per la buona cucina. “El Canoncito” gioca così sino a quarant’anni vincendo tre Coppe dei Campioni, una Coppa Intercontinentale ed entrando nella “Hall of Fame” del calcio mondiale. Poi diventa anche un allenatore giramondo e finisce per dirigere squadre in quasi tutti i continenti pur senza ottenere risultati di spicco. Forse perché, in fondo, Puskàs rimaneva un calciatore, un attaccante di razza che soffriva troppo a sedersi in panchina, uno di quelli che avrebbe stretto chissà quale patto con il diavolo pur di continuare a rincorrere ed accarezzare un pallone. Perchè Ferenc è stato veramente un fenomeno. Possedeva intuito, controllo, tecnica, posizione, potenza e, soprattutto, uno dei migliori sinistri di sempre.“Era il migliore tra tutti noi”, rammenta  il suo vecchio compagno Hidegkuti. “Ferenc aveva un settimo senso. Anche se esistevano mille soluzioni per fare la stessa cosa, lui riusciva sempre a stupirti perché ne trovava una in più a cui non avresti mai pensato.”