Once in a lifetime: Arthur Russell

Il 4 aprile 1992 muore a New York Charles Arthur Russell, Jr., musicista di professione. Quando se ne andò prematuramente Arthur aveva solo 41 anni. Si lasciò alle spalle mille trecento registrazioni inedite, contenenti anche più di quaranta differenti versioni di ogni brano, e una manciata di oscuri e misconosciuti dischi che si rivelarono estremamente influenti nell’arco dei due successivi decenni. Nel suo intenso e breve percorso Russell lasciò senza dubbio il segno, seminando idee, progetti, intuizioni che furono poi raccolti da molti artisti. Il suo era un vasto e composito mondo, fatto di diverse sfumature e accenti, dalla passione per le filosofie orientali alla sperimentazione, dalla pop music alla musica da camera, dalle poesie di Ginsberg al nervoso melting-pot urbano dei Talking Heads, dall’urgenza del punk alla trance minimalista di Philip Glass, dal gelido brivido dell’elettronica all’incalzante cassa in quattro quarti che aveva cambiato il ritmo delle giovani generazioni. Arthur era uno “spirito guida” di New York. Sebbene si fosse trasferito nell’East Village solo attorno alla metà degli anni settanta, era come se vi avesse abitato da sempre. Perchè la sua musica, le sue composizioni, piccole ed estemporanee perle di tesa inquietudine, ne respiravano tutta la tensione creativa, quella stessa che si era scatenata nei vicoli del Lower East Side sin dall’inedita saldatura di approcci diversi e inconsueti, tra radicalismi sonori, versi rivoluzionari e, soprattutto, una nuova visione del mondo. Erano state quelle attitudini a portarlo a dirigere “The Kitchen”, la storica culla delle avanguardie cittadine, dove era nata la “No Wave” di Lydia Lunch, Glenn Branca e James Chance e dove aveva stabilito la propria base operativa gente del calibro di Glass, Reich, Eno, Greenaway e Nyman. Anche Russell vi aveva dato il suo contributo progettando rassegne multimediali di performing arts ad alto tasso di contaminazione stilistica e originalità. Arthur era uno zelante e prolifico perfezionista, attento e scrupoloso ad ogni dettaglio, innamorato delle sfumature quanto perennemente insoddisfatto. Perchè Russell era assolutamente incapace di arrivare a stendere una versione definitiva di ogni sua composizione. Quello era il suo massimo pregio e, forse pure, il peggior difetto, perchè, come confessò anni più tardi l’amico e mentore Peter Gordon, Arthur non era probabilmente interessato a racchiudere un’idea sonora in una sola stesura quanto, piuttosto, a declinarla creativamente in un ventaglio di ipotesi diverse e differenti esplorando così tutta la vasta gamma delle possibili alternative. Questa profonda inquietudine, questo suo essere sospeso e incompleto, questo continuo e ossessivo scavo tra le note e gli arrangiamenti lo costringevano a dare alla sua scrittura forme stilistiche ogni volta diverse. Arthur era un vero outsider, un alchimista della sperimentazione, un’anima della frontiera, un’artista completo che non smise mai di cercare. I suoi brani sono piccole evanescenti gemme di avant-pop che si distinguono non solo per le ardite strutture ma anche per l’inconfondibile registro emotivo delle sue interpretazioni, talmente algido e tagliente, accorato e incerto da costringere la critica a scomodare Nick Drake e i New Order, come se il destino in un improbabile ed impossibile futuro li avesse fatti suonare assieme. Come Drake Arthur cantava di sentimenti incompresi, di tristi abbandoni, malinconici saluti e fragili emozioni. Come Drake rimbalzò tra profonde depressioni e il tragico ed illusorio paradiso delle droghe. Come Drake se ne andò maledettamente giovane con molte cose ancora da scrivere e cantare. Questa sua anima sfuggente suggerì al critico musicale David Toop queste note: «Immaginate di possedere un juke-box, uno scintillante Wurlitzer degli anni ’50, che pare una navicella spaziale e contiene un tesoro di dischi che non deludono o annoiano mai: Chet Baker per esempio, insieme a John Martyn, Babatunde Olatunji, Hasil Adkins, Ramnarian, Willie Nelson, Fela Kuti, Nick Drake, JB Lenoir, George Faith, Phil Niblock, Jimmy Bo Horne, King Tubby. Poi immaginate, dopo una serata di fumo e bevute e sogni, di sentire il bisogno di ascoltare tutti questi artisti simultaneamente, come se certe qualità della loro musica si fondessero in un’unica sonorità che non si può riferire a nessuno in particolare. Un nuovo nome appare sul vostro juke box: Arthur Russell». All’indomani della sua scomparsa, il Village Voice così lo ricordo: “Le sue canzoni erano così personali che sembrava che lui dovesse semplicemente svanire nella sua musica.”