Once in a lifetime: Howard Hughes

Il 5 aprile 1978 muore a Houston, Texas, Howard Robard Hughes, Jr., di professione imprenditore, regista, produttore e aviatore. Howard fece molte cose nella sua vita. Alcune andarono bene, altre andarono meglio, altre non andarono proprio. Ciò nonostante il destino gli regalò fama e potere. Perchè Hughes divenne in pochi anni l’uomo più ricco d’America, un magnate della finanza e della meccanica, un geniale visionario, un influente “king maker” della politica americana e un applaudito aviatore, capace di infrangere record a ripetizione. Howard Hughes era l’icona del successo assoluto, l’ambasciatore degli Stati Uniti all’estero in anni opachi di diplomazie compromesse e rigidi protocolli. Howard era abile in tutto. A macinare denaro, a sprecarlo, a investirlo in attività innovative e redditizie. Manovrava con grande agilità deputati e uomini dello stato, ammorbidiva banchieri, trattava con celebri e potenti uomini d’affari, sportivi, soubrette e politici, e poteva persino vantare una forte ascendenza sulle amministrazioni Johnson e Nixon. Visse una vita eccessiva e romanzata, una di quelle esistenze che amava raccontava Hollywood. Il suo legame con gli Studios era strutturato, profondo e complesso: la sua icona era una sicura fonte d’ispirazione per i grandi registi mentre il suo denaro scorreva tra gli stabilimenti di posa mantenendo un buon numero di attori, tecnici e maestranze e producendo più di venticinque pellicole.  Il grande Orson Welles pensava proprio a lui mentre scriveva le gesta del temerario protagonista di “Citizen Kane” mentre Edward Dmytryk si ispirò direttamente alle sue peripezie per “L’uomo che non sapeva amare”. Howard si sedette anche dietro la macchina da prese per una manciata di volte, senza lesinare risorse e energie, perchè quando mr. Hughes faceva una cosa, la faceva sempre in grande. Nel 1930 gira “Hell’s Angels”. Investe più di due milioni di dollari nella produzione ma nel bel mezzo delle riprese il cinema gli volta le spalle e diventa finalmente sonoro. Hughes deve ricominciare tutto da capo, ma non si abbatte. Rigira ogni inquadratura e passa settimane in sala montaggio. Alla fine il film gli costerà più di quattro milioni ma incasserà due volte tanto.  La sua è una vita grandiosa fatta di commedie ed eccessi. Sembra “Il Grande Gatsby”. Ama progettare e pilotare aerei. Spesso li collauda pure. Qualche volta il collaudo è un mezzo disastro, altre volte una vera tragedia.  In un paio di occasioni precipita malamente con il velivolo e si salva per miracolo, a prezzo di pesanti interventi e massicce dosi di potenti analgesici e stupefacenti che lo rendono debole, insicuro e dipendente. Ma Hughes non è solo un personaggio ricco ed eccentrico. La sua ossessione per i limiti, quella sua smania di grandezza, quella spirito della  frontiera e quella voglia di arrivare dove gli altri non riescono, lo trasforma a lungo andare in un triste e tragico misantropo, impaurito da tutto, persino dai germi e dai contatti umani, preda di frequenti crisi, ostile e paranoico. Ma il suo mito non si incrina. Howard rimane un uomo favoleggiato, desiderato e chiacchierato, anche se del tutto inavvicinabile. Scompare per molti anni. Lo insegue il Dipartimento del Tesoro, ne parla tutta l’alta società, lo invocano gli uomini di spettacolo, ma lui rimane chiuso in un dorato isolamento che sa di clinico e patologico. Qualche giornalista millanta pure qualche sensazionale intervista e prova a tirarne fuori un “libro rivelazione”, prima di venire miseramente smascherato. Quel suo ritiro accresce il rumore sul suo nome, sulle sue manovre, sul suo denaro, sui suoi voli, sulle sfrenate notti bianche, sulla follia, i favori, i finanziamenti occulti, i rapporti con trafficanti, mafiosi, dittatori e i vertici di tutte le Agenzie governative. Dietro lo scandalo del “Watergate” viene fuori anche il suo nome, così come nell’affaire cubano, nell’operazione Somoza e in molte delle più censurabili e discusse campagne “undercover” della Cia in Sudamerica e in Europa. Nonostante tutto quel clamore Howard non uscirà mai più da quel suo cono d’ombra. Rimarrà infatti nascosto e sepolto nella sua enorme suite di Las Vegas, da cui emergerà solo per curare una parossistica sindrome ansiosa e per sottoporsi a frequenti interventi. Morirà in volo, nell’atmosfera rarefatta, ad oltre 10 mila metri di altezza sul Golfo del Messico, nella sua dimensione preferita, durante un trasferimento aereo. La sua pionieristica, contraddittoria, discutibile e complessa figura rimane, ancora oggi, la più fedele rappresentazione del sogno americano e delle mille luci e ombre che lo hanno spesso accompagnato.