Once in a lifetime: Renato Cesarini

L’11 aprile 1906 nasce a Senigallia Renato Cesarini, di professione calciatore. Esisteva un tempo ormai remoto in cui le partite finivano ben prima dello scoccare del fatidico novantesimo minuto. In quel calcio fatto di sudore, fatica e polmoni l’avvicinarsi del fischio finale sembrava una formalità, l’ultimo ineluttabile atto di una pratica già pronta per l’archivio. Le cronache di quelle ruvide sfide sono zeppe di risultati che non variano mai in quell’ultimo giro di orologio, in quegli ultimi sessanta secondi che separano le squadre dallo spogliatoio come dal destino. In quel calcio il “novantesimo minuto” non era ancora stato inventato e scadeva a risultato acquisito. Ma, poi, d’un tratto tutto sembrò cambiare. Il merito non fu di qualche innovazione regolamentare ma dell’irruento e scoppiettante irrompere sulla scena delle singolari gesta calcistiche di Cesarini Renato da Senigallia. Renato era un italiano d’Argentina. La sua famiglia aveva infatti sfidato l’Atlantico, a bordo di un piroscafo, quando non aveva ancora compiuto nove mesi. I Cesarini erano finiti “al di là dell’acqua” a cercare fortuna e a riparare suole e tacchi, e lui era cresciuto nelle strade dei barrios di Buenos Aires aiutando il padre, innamorandosi degli acrobati, facendo a pugni e inseguendo, con magistrale perizia, i bislacchi rimbalzi del pallone. Tra tutte, fu in quest’ultima specialità che Renato si rivelò un autentico fuoriclasse. Gli bastarono cinque anni di calcio, imprese, gol e furbizie assortite per convincere l’Italia a rivolerlo indietro. Il suo rientro fu merito del barone Bazzonis e di Carlo Carcano che alla Juventus stavano cercando gente che avesse fame, stile, piedi buoni e cervello fino. In quello squadrone, in compagnia di Rosetta, Caligaris, Combi, Ferrari e Borel, c’è posto anche per lui. E lui, mezzala ventiquattrenne di belle speranze, fa il suo esordio con la maglia bianconera segnando subito una rete. Renato ama la bella vita. E’ imprevedibile, irriverente, ruffiano, furbo ed estroverso. Cesarini è un personaggio incorreggibile, conteso e corteggiato che vuole vivere fino in fondo il suo tempo: passeggia per Torino con una scimmia sulla spalla, apre un locale notturno in piazza Castello a fianco del negozio della famiglia Combi, frequenta gente facoltosa e influente, passa le notti a ballare il tango in smoking, spende e spande con eleganza, brillantina, stile e distinzione. Ma, per quanto si spinga spesso oltre i limiti, quando va in campo è di quelli che cambiano le sorti della partita, magari nel breve volgere di pochi secondi. Esattamente come accadde il 13 dicembre 1931 a Torino, sul terreno pesante del Filadelfia, quando Pozzo lo schiera, quasi malvolentieri, contro i temibili ungheresi. La partita è dura ed estremamente equilibrata e, dopo due reti per parte, pare ormai avviarsi stancamente verso il suo scontato epilogo. Ma Cesarini non ci sta e a pochi secondi dalla fine ruba un pallone, lo contende al fango, agli avversari e pure a qualche zelante compagno, si avventura in area di rigore litigando con il mondo e trafigge con una imparabile bordata Ujvari. Gli azzurri battono l’Ungheria e Cesarini entra così nella leggenda firmando l’ultimo giro di lancette, quel “suo” fatidico ultimo minuto, la fantomatica “zona Cesarini”, come la ribattezzarono prontamente i cronisti dell’epoca ed in particolare l’attento Eugenio Danese. E quei suoi gol velenosi, cinici e spietati, siglati all’ultimo minuto, tornò spesso a farli anche in campionato con la maglia juventina. Per questo il Cè, l’argentino da Sinigallia, il maestro del tango, diventò storia, emozione e il simbolo di un lessico appassionato, di un modo unico di intendere il calcio e forse anche la vita, con leggerezza ma anche con la salda idea di non mollare mai sino all’ultimo secondo, di credere sempre che la partita termini solo quando l’arbitro fischia la fine. E così dopo una splendida carriera al di qua e al di là dell’Atlantico, che peraltro solcherà nuovamente nel 1935 per andare a movimentare “la maquina” del River Plate in compagnia del mitico Pedernera, di Moreno e Peucelle, il Cè ha il grande onore di entrare nel gergo comune e di finire a campeggiare nelle pagine dei più colti dizionari enciclopedici. Che strane cose accadono talvolta ad inseguire un pallone.