Once in a lifetime: Paolo Barison

Il 17 aprile 1979 muore ad Andora Paolo Barison, di professione calciatore. Paolo ha vissuto una vita breve e intensa, ricca di soddisfazioni ma anche di pagine amare. Barison era un attaccante di razza. Il suo mestiere era quello di fare gol. Le prime volte che scende in campo lo spediscono sulla fascia sinistra, gli dicono di correre, di andare a cercare fortuna puntando l’area avversaria. In quei rigidi e ortodossi moduli tattici, tra quelle rigorose trame geometriche non c’è spazio per il vezzo. Quel calcio conosce ben pochi lussi. Gli allenatori più fortunati, quelli che se li possono permettere, li concentravano in due ruoli epocali, nella mezzala di punta, sorta di semidio calcistico e sapiente maestro di fantasia e classe, unico autorizzato dal mister a inventare e dispensare i sogni dell’arte pallonara, e nella fantasticata ala sinistra, eroe del gol e icona irregolare di un football che sapeva ancora di sudore e piccole follie di provincia. A Barison danno proprio la maglia con il numero undici cucito sulle spalle e lo mandano in campo a fare sfracelli. Gli dicono di stare largo sulla fascia, di correre come fosse un bisonte e di non farsi prendere, di non pensare a nient’altro se non a  fare gol.

Paolo si ritrova, però, una testa fina, un signor carattere, un gran fisico e due polmoni che sembrano motori. La natura lo ha dotato di grandi leve e di una discreta massa muscolare. Quando scappa via al terzino è impossibile da andare a riprendere. Ma Paolo ha anche un naturale senso della posizione. Non solo si fa trovare sempre al posto giusto nel momento giusto, ma sa anche come abbandonare quella fascia per tagliare in profondità le linee difensive aprendo preziosi varchi ai compagni di squadra. E’ quel suo fiuto, quel suo modo originale di stare in campo, a decretarne l’assoluta modernità ed a farlo rincorrere da uno stuolo di tecnici e osservatori.

Il suo primo calcio macina chilometri su e giù dalla Pedemontana, nel triangolo tra Vittorio Veneto, Treviso e Venezia. Fa per tre anni la fortuna dei neroverdi lagunari, divenendo letale nei contropiedi come pure sui calci piazzati, dove domina l’area di rigore battezzando angoli impossibili. Sull’onda dei suoi gol il Venezia guadagna la serie cadetta. Poi arriva il Genoa e, quindi, il Milan del “Paron”, con cui conquisterà uno scudetto e una leggendaria Coppa dei Campioni. Quelle stagioni sono tra le più belle di Rocco. I rossoneri hanno carattere e inventiva, velocità e estro. In quello squadrone Barison va a fare compagnia a fuoriclasse come il giovane Rivera, Trapattoni, Maldini, Ghezzi, Sani e Radice. Con l’imprevedibile Altafini  forma una delle più classiche linee offensive di sempre: lui, piantato e veloce, movimentava il fronte trascinandosi in scia mezza difesa, mentre l’agile e rapido Josè si infilava nei varchi approfittando di ogni indecisione avversaria. Sono anni splendidi ma, al contempo, duri e difficili. Paolo fatica a reggere la pressione della spietata concorrenza interna e finisce a fare panchina. Barison sbuffa, ha appena toccato il cielo con una Coppa e, francamente, crede di meritare di meglio. E poi è cresciuto con un’anima nomade e mobile, forgiata da tutti quei chilometri mattinieri su e giù per la Marca. Così torna in Liguria alla Sampdoria e, poi, via ancora, a Roma e a Napoli, dove ritrova l’amico e compagno Altafini che, stando ai maligni, ne caldeggia l’ingaggio per motivi decisamente poco calcistici. La liaison dangereuse tra l’attaccante brasiliano e sua moglie Annamaria incappa nei bagliori dei flash e Barison viene travolto da un clamoroso scandalo mediatico cavalcato da una stampa bacchettona che comincia pruriginosamente a seguire da vicino il bel mondo dei calciatori, anticipando le derive assai poco edificanti dei successivi decenni. Così, purtroppo, Paolo è costretto, ancora una volta, a cambiare aria. Ma a trentaquattro anni è davvero dura ricominciare. Ci sarà comunque spazio ancora per la Ternana, il Bellaria e pure per una piccola esperienza canadese. Poi pensa a sedersi in panchina. Al Milan aveva lasciato bei ricordi e lo chiamano a sostituire il Trap per una manciata di giornate. Quindi è il turno di Torino, dove l’amico Radice lo convoca per affidargli l’incarico di osservatore ma, ancora una volta, il destino gli ruba drammaticamente la scena.

Durante un rientro in auto da Genova un bilico che procede sulla corsia opposta perde il controllo e travolge la vettura su cui sta viaggiando con Radice. Barison muore sul colpo mentre Radice rimane praticamente illeso. La vita, si sa, è spesso una crudele questione di centimetri. La corsa del “Bisonte” finisce purtroppo così, tragicamente lontano dall’erba dei terreni di gioco a cui tanto aveva dato ed a cui tanto avrebbe ancora potuto regalare.