Once in a lifetime: Roberto Bolaño

Il 28 aprile 1953 nasce a Santiago del Cile Roberto Bolaño Ávalos, di professione scrittore. Roberto non si fidava del mondo. Le vicende della vita, quel precoce e dolente peregrinare tra Cile, Messico ed Europa, quello sfuggire a dittature e regimi militari, lo avevano spinto a diffidare delle lusinghe del presente. Perché Roberto aveva bisogno di idee e di ideali. Ne aveva bisogno per provocare, discutere, cambiare. Quel presente difficile, critico e distratto lo avrebbe barattato volentieri con un futuro dal sapore antico, che profumava di passato, di battaglie e malinconie. Qualche volta la magia riusciva, qualche altra no, e allora lasciava a quel suo sottile senso dell’umorismo il compito di risolvere la partita facendosi portare in alto mare, liberamente alla deriva.
Roberto è stato, suo malgrado, uno scrittore influente per un’intera generazione di giovani talenti sudamericani. Come David Foster Wallace, Bolaño, infatti, odiava i monumenti e chi da lì pontificava a schiere di anime perse. Avrebbe voluto fare il detective o il poeta ma il destino lo aveva costretto a impolverarsi le mani con le storie, lo aveva condannato a infilarsi nel labirinto della prosa. E, fatalmente, proprio lì aveva dato il meglio di sè. Perché quel suo modo visionario di raccontare utilizzando il paradosso e l’ironia, con un registro in perfetto equilibrio tra realismo e finzione, aveva regalato opere straordinarie come “I detective selvaggi”, “Amuleto”, “2666” e “Notturno cileno”, lavori in cui la struttura di base era già di per sé un’intricata opera letteraria, un mirabile intreccio di narrazione e atmosfera lirica.
Nonostante abbia tardato ad ammetterlo, tra le pagine dei suoi libri si sono agitati molti fantasmi della letteratura sudamericana, da Borges a Vargas Llosa, da Cortazar a Puig, da Reyes a Wilcock. Presenze discrete, clandestine e fugaci, tra luci e ombre, perché Roberto, quanto a natali, non amava sbandierare troppo. Era un animo libero e fieramente indipendente che alla citazione preferiva sempre il graffio, all’establishment sempre l’azzardo  dell’avanguardia, al punto da fondare, con l’amico e collega Mario Santiago Papasquiaro, anche un movimento dissonante e dadaista.
L’”infrarealismo”, così lo avevano battezzato tra fumi di mezcal dai tavoli del Café de la Habana di Calle Bucarelli, doveva rompere l’incantesimo di una liricità distante, sognata e accademica, per riportare le parole sul selciato del quotidiano a servizio di quella parte di mondo che sembravano ignorare. A quello spirito fieramente irriverente e critico degli esordi Bolaño sarebbe rimasto sempre fedele disseminando le sue storie di misteri sommersi, di perdenti, di antieroi e di detective filosofi, incerti e insicuri. Per questo Roberto rimane un capitolo a parte, una voce fuori dal coro. Perchè fu tra i pochi scrittori che non si considerò mai tale, perchè rimase sino alla fine un uomo consapevole del proprio talento che divorava libri passando intere giornate alla macchina da scrivere per provare a ingannare il tempo con storie, idee e stratagemmi, senza mai curarsi del resto, della sua vita e della sua salute, di quanto la malattia gli stava portando via o di quello che ancora gli rimaneva da vivere. Bolaño si è congedato dalle sue storie a soli cinquant’anni, troppo presto per tutti i sogni che avrebbe ancora potuto regalare ma almeno in tempo per lasciarsi alle spalle la mirabile scia di una “stella distante”.
“La mia proposta letteraria è legata direttamente alla mia vita. La mia proposta letteraria è la mia vita. In questo senso riprendo quel che dicevo a proposito della poesia e del rischio. La proposta letteraria, la poesia del poeta, è il poeta stesso. Sempre.”