Once in a lifetime: Wes Anderson

Il 1 maggio 1969 nasce a Houston, Texas, Wesley Mortimer Wales Anderson, di professione regista, sceneggiatore e produttore cinematografico. Ci sono alcune cose che rendono Wes un capitolo a parte nell’attuale mondo del cinema.

Innanzitutto, il modo in cui tratta i personaggi e li inserisce nelle sue storie, assecondandone ogni bizzarra deviazione dalla banale conformità, ogni inclinazione e singolarità. Wes racconta, infatti, di gente presa male dalla vita che, nonostante ingombranti autoreferenzialità, rimangono, loro malgrado, invischiate in situazioni più complesse e grandi di loro. In quelle trame, nelle traiettorie di bislacche relazioni empatiche e nella girandola di famiglie nevrotiche e disfunzionali, zeppe di adulti infantili e bambini cresciuti, le sue creature che, sino a lì, sono rimaste ai margini del mondo, solo perchè non si sono mai perdonate errori e difetti, incontrano fatalmente persone che le portano ad accettarsi ed a proseguire oltre. Ogni suo film diventa così un piccolo poetico manuale di sopravvivenza per soggetti problematici che sfida apertamente ogni modello omologato di comportamento sociale ed ogni ipotesi di canone morale.

In secondo luogo, il battito profondo, la pulsazione intima di ogni sua visione, quel perfetto concatenarsi di silenzi, dialoghi, suoni e musiche che ne fa sempre un mirabile e calibrato rimbalzo metafisico, malinconico, raffinato ed elegantemente rassegnato. Ogni suo film sembra infatti possedere un peculiare e distinto tratto sonoro, un ritmo interno che ne permea ogni fotogramma e la complessiva visione di fondo, a partire dallo stile e dal movimento di macchina sino alla puntuale selezione dei registri cromatici della fotografia.

C’è poi l’aspetto, forse, più intrigante e cioè l’assoluto rigore geometrico dei suoi quadri e di ogni inquadratura. Perchè in ogni fotogramma del suo cinema esiste un centro, una profondità e due metà, esattamente speculari. Non che questa sia poi una grande novità, basti pensare, solo per fare un esempio, ad un maestro come Kubrick ed ai suoi proverbiali punti di fuga centrali. Ciò nonostante nella fine materia visiva delle sue pellicole ogni set, ogni particolare di scena e, anche e soprattutto, la meditata scelta delle location è parte di un percorso fatto di incroci simmetrici, di doppi, di ombre e riflessi. Quello che ne esce è un mondo in miniatura fatto di accoglienti spigolosità. Questo suo talento mi sembra una magia nella magia, una rincorsa tra opposti, l’elegante rappresentazione di una realtà che muta in considerazione di ogni stato umano e che si adegua quindi alle identità dei propri ospiti, alle loro incertezze, ai loro fallimenti e alla loro decadente rovina. E’ il grido di dolore di un mondo di antieroi che si riprende clamorosamente la scena, che piega le circostanze e le convenzioni formali sino a trasformarsi nello specchio visibile delle loro complesse identità e delle loro precarie condizioni esistenziali.

Infine, oltre alla classe infinita e alla brillante leggerezza dei registri narrativi, c’è la continua rincorsa di citazioni, alte e basse, personali e altrui, una magistrale e nobile arte della sponda che si struttura in un variabile universo disseminato di riferimenti e omaggi.

Qualcuno ha scritto che le sue opere sono frutto di una grande visione corale di un mondo fatto di perimetri solitari. In realtà però Wes non indugia in assoluzioni di gruppo, non indica mai nessuna scorciatoia consolatoria. Anzi, a me pare vada piuttosto in una direzione del tutto opposta, in cui i perimetri magari si allargano, arrivando pure a sovrapporsi, ma rimangono saldamente integri nella loro unica, inviolabile e straordinaria specialità. Un pò come la sequenza conclusiva di “Moonrise Kingdom”, quando Wes riprende l’iconica spiegazione di Benjamin Britten sulla funzionalità di un’orchestra, perfetto equilibrio di partiture e strumenti diversi che entrano in successione gli uni agli altri e che rimangono all’interno del tracciato melodico assegnato, pur continuando a muoversi in maniera diversa e del tutto indipendente. Ecco perchè alla fine il suo cinema è molto più realistico di quanto se ne possa pensare.

“I miei luoghi e i personaggi hanno sempre qualcosa di sorprendente ed eccessivo, perché è così che vedo il mondo, e credo che così sia in realtà. Cerco di ricrearlo trovando qualcosa che coinvolga lo spettatore, facendogli capire che quella realtà che appare strana o eccessiva è anche la sua.”