Once in a lifetime: John Steinbeck

Il 6 maggio 1940 John Ernst Steinbeck Jr. riceve il “Premio Pulitzer” per il romanzo “The Grapes of Wrath” pubblicato il 14 aprile del 1939. In quei dodici mesi la sua vita era cambiata perchè quel suo testo, nel frattempo, era diventato il libro più venduto degli Stati Uniti trasformando il suo schivo autore in un personaggio pubblico discusso e chiacchierato, in una sorta di eroe letterario adorato ed, al contempo, contestato.

“Furore”, come poi venne tradotto il titolo da Bompiani che lo preferì al più letterale “I frutti dell’ira”, non ebbe mai vita facile. John aveva pensato ai grandi classici, gli erano venute in mente la Bibbia e l’Odissea, quel loro infinito viaggiare, il dolente peregrinare, quella fuga, quell’andata senza ritorno. Aveva intuito una trama grandiosa, ma poi aveva allontanato ogni tentazione di lirismo ed epicità per affidarsi, invece, ad una narrazione cruda, diretta e realistica. In quello che avrebbe raccontato ci sarebbe stato spazio per sentimenti profondi,  per lacrime e sangue, per un intreccio complesso e amaro, per un migrare intimo e privato prima che pubblico. Dietro l’epopea della famiglia Joad c’erano lui, la sua terra, la California, la valle di Salinas, quello che aveva visto e che vedeva ogni giorno, il volto di un’America in lotta con sè stessa ed i suoi sogni, la crisi, la fame, la natura e la siccità. Quel mondo acre di sabbia, ai confini con il Dust Bowl e il sole dell’avvenire, masticava conflitti, contraddizioni e stenti tra egoismi e spinte solidaristiche. Era il racconto di un’umanità che abitava una difficile frontiera di “uomini e topi”, alla disperata ricerca di un lavoro e di un pezzo di pane da sfamare i figli. Era la storia di una suburra di padroni e derelitti, di ingiustizie e durezze, di spietati latifondisti e braccianti a caccia di fortuna, terra e sole.

Quel pezzo di realtà narrata con quello stile così forte, vivido, diretto e immediato aveva finito per dividere l’opinione pubblica. Se per molti Steinbeck divenne il paladino di un dolente e sfruttato sottoproletariato rurale, per altri si trasformò in un pericoloso ed arrabbiato provocatore. “Furore” fu bollato come un mero foglio di propaganda politica e messo, perciò, al bando da istituzioni, scuole, biblioteche e librerie. John dovette difendersi dai quotidiani attacchi della chiesa, della politica e delle grandi corporations. Fu messo all’indice, ostracizzato ed isolato mentre il suo racconto dovette affrontare un’ingenerosa ondata di critiche e accuse, sino ad essere definito da influenti quotidiani un libro immorale, falso e degradante.

Ma “Furore” era e rimaneva una storia basata sulla cronaca e sulla mera osservazione della realtà. Quelli che Steinbeck descriveva erano gli ambienti, le atmosfere e i sogni della gente con cui era cresciuto. Era l’etica e la tensione morale che andava cercando da tempo e che aveva provato a raccontare dalle colonne del San Francisco News. Era il suo omaggio a colossi come Hemingway, Faulkner, Dos Passos e Caldwell, era il “basso ventre” di un’America arida ed egoista, era il ghigno sprezzante del potere, il tracollo finanziario, la crisi economica e la caduta, la polvere, la miseria, la sconfitta, le lacrime degli esclusi e degli ultimi, la loro voglia di futuro e lo spirito di sopravvivenza. “Furore” era una sorta di profonda e simbolica mappa emotiva, lo specchio di una crisi sistemica che scuoteva le coscienze richiamando con esplicita durezza l’attenzione sui valori di una comunità e di uno stato.

Anche in Italia il racconto di Steinbeck incontrò criticità e vicissitudini. L’epopea della famiglia Joad venne editata da Valentino Bompiani che affidò la traduzione a Carlo Coardi. Il testo dovette fare i conti con numerosi tagli imposti dalla censura del Ministero della Cultura Popolare, che limitarono la comprensione della portata dell’opera e del suo personaggio principale.

Per tutto quello che si trascinò in scia, “Furore” diventò per Steinbeck una difficile esperienza che lo cambiò, facendogli vedere il futuro da una prospettiva diversa, regalandogli un Premio Nobel e, con esso, anche una discreta rendita, una fama crescente, nuove case e nuove mogli. Ma per quanto tentasse di sfuggirvi, nonostante le lusinghe e tentazioni della vita ed una manciata di successivi titoli di assoluto interesse, John rimase per sempre prigioniero di quelle righe e delle intricate e dolorose trame che aveva così brillantemente narrato.

“Gli uomini mangiavano ciò che non avevano coltivato, non avevano legami con il loro pane. La terra partoriva sotto il ferro, e sotto il ferro a poco a poco moriva, perché non era stata amata né odiata, non aveva attratto preghiere né maledizioni.”