Once in a lifetime: Vujadin Boškov

Il 16 maggio 1931 nasce a Begec, a una manciata di chilometri da Novi Sad, Serbia, Vujadin Boškov, di professione calciatore e allenatore. Quel volto antico, furbo e sincero, gli occhi lucidi e ferini da consumato giocatore d’azzardo e, soprattutto, quel fantastico italiano balcanizzato di frontiera lo trasformarono in una sorta di icona televisiva degli anni ottanta. Alle telecamere, Vujadin riservava infatti sempre un campionario di illuminanti aforismi e pillole di saggezza che lo avvicinavano alle esilaranti battute di Hrundi V. Bakshi in “Hollywood Party” di Blake Edwards o alle stranianti gags di Monsieur Hulot nell’omonimo film diretto e interpretato da Jacques Tati. Perché Boškov sembrava avere sempre i tempi giusti, le battute fulminanti, le osservazioni più semplici e lineari che smontavano puntualmente ogni precaria speculazione intellettuale ed ogni posticcia architettura del pensiero pallonaro riportando tutti con i piedi a terra, o, meglio ancora, nel fango delle zolle sollevate dai tacchetti.

Ma Vujadin non faceva mica il comico di mestiere. Quello di Boškov era un lavoro più faticoso e fisico, perché la sua specialità, sia da calciatore che da allenatore, era quella di giocare e far giocare magistralmente a pallone. Grandi polmoni e fisico da trincea, Boškov aveva cominciato la carriera facendo il mediano e giocando davanti alla difesa. In quel ruolo era bravo e tosto perché possedeva, come tutti i grandi, la metrica giusta e il senso delle cose, quello che ti fa sempre capire quando ti puoi permettere il bel gesto, un dribbling o una finta, e quando, invece, è il caso di spazzare via palla e fango in tribuna come se fossi nella solita resa dei conti serale del sanguinoso campionato amatoriale del Dopolavoro Ferroviario. Vujadin possedeva il dono di vedere il gioco in netto anticipo rispetto agli avversari e divenne così una pedina fondamentale della FK Vojvodina, dove militò dieci anni spezzando il predominio delle solite squadre dell’allora Jugoslavia, Stella Rossa, Hajduk, Partizan e Dinamo. Arrivò in Italia a cercare fortuna non più giovanissimo, con un titolo olimpico in carnet e un brutto infortunio alle spalle. Anche per questo a Genova non giocò molto ma fece in tempo a innamorarsi dei colori doriani e del clima della Riviera. Quindi, pensò di usare tutta la naturale astuzia e quel suo senso tattico provando a dirigere le operazioni dalla panchina a lato del terreno di gioco.

Il suo era un calcio fatto di grandi e solidi fondamentali. In gioventù era cresciuto sognando la grande Ungheria e il Brasile, ma poi l’infinito presidio della fascia di centrocampo gli aveva consigliato un approccio tatticamente più coperto e ponderato, allestendo robuste difese e impostando il gioco con rapidi contropiedi, grazie anche ad esterni veloci e fulminanti. Boškov manda così in campo squadre sempre ostiche e difficili da affrontare a viso aperto. Ma Vujadin ha un’altra grande capacità. Riesce empaticamente e con poche parole a farsi comprendere dai suoi giocatori, per i quali diventa una sorta di padre putativo, un  silenzioso e autorevole riferimento, come molti altri grandi trainer di quella stagione. Nonostante un vocabolario apparentemente povero, Boškov si rivela un maestro del pensiero, una sorta di filosofo del dio pallone ed un eccezionale motivatore. Nelle sue mani le squadre acquisiscono carattere e determinazione, i giocatori diventano un collettivo coeso e giocano in campo con grande libertà. Come Bagnoli, Boškov si rivela un fine intenditore della materia umana: intuisce le trame e intercetta i pensieri, le attitudini e le speranze di ogni suo giocatore riuscendo così a schierarlo nel ruolo più gradevole ed efficace.

Arrivano così anche i successi. Boškov vince una Coppa d’Olanda con il Den Haag, soffiandola al ben più attrezzato Twente, e poi con il Real Madrid scrive il suo nome degli annali aggiudicandosi una Liga, due Coppe del Re e sfiorando la Coppa dei Campioni, dove ha la sfortuna di trovarsi di fronte in finale il Liverpool dei miracoli. In Italia riporta l’Ascoli di Costantino Rozzi nella massima serie e, quindi, approda nella sua amata Genova per dare avvio ad un ciclo intenso e leggendario. Con i blucerchiati conquista infatti uno straordinario scudetto nel 1991, due Coppe Italia, una Supercoppa e una Coppa delle Coppe. Con la squadra di Vialli, Mancini, Pari e Cerezo arriva di nuovo in finale nella Coppa Campioni. A Wembley, questa volta, si trova di fronte il Barcellona di Cruyff, quello stelle e spettacolo di Koeman, Laudrup, Stoichkov e Guardiola, e, ancora una volta, la sorte maligna gli si para innanzi negandogli il maggior trofeo continentale. Finisce uno a zero per i blaugrana grazie ad una amara prodezza balistica di Koeman che decide ai supplementari un match assolutamente equilibrato. Vujadin affogherà il dispiacere cambiando aria andando ad allenare la Roma e poi, in sequenza, ancora Napoli, Servette e Perugia.

Boškov si è spento lo scorso anno, il 27 aprile 2014, per una grave malattia all’età di ottantadue anni. Alla notizia della sua scomparsa tutto il mondo del calcio lo ha ricordato affettuosamente, rievocando il suo spirito disincantato e quella sottile vena ironica con cui riusciva sempre a sdrammatizzare ogni inconveniente. Quando rivedo il suo profilo ripenso anch’io alle sue proverbiali invenzioni metafisiche, come l’epocale «Rigore è quando arbitro fischia», alle sue massime immortali, come quella straordinaria di «Gullit è cervo quando esce di foresta», o alle sagaci invettive di pura creatività, come quando rimproverò il genoano Perdomo «degno di giocare nel parco di mia villa con mio cane». Boškov era tutto questo, un incorreggibile e travolgente miscela umana di sentimenti, arguzia, stile, capacità e intelligenza, uno spirito libero, fine e lungo, di cui si sente sempre più la mancanza in questi anni di capitani ben poco coraggiosi.