Once in a lifetime: László Kubala

Il 17 maggio 2002 muore a Barcellona László Kubala Stecz, di professione calciatore e allenatore. László fu tra i pochissimi calciatori al mondo ad indossare la maglia di tre diverse nazionali, quella cecoslovacca, quella ungherese e quella spagnola. Colpa di una serie di fughe e di singolari intrecci del destino, colpa, soprattutto, di un camion preso al volo e di un volo mai preso. La sua fu una vita davvero avventurosa, costellata di grandi successi e piccole sortite, reali e metaforiche. Fece la giovane promessa, il calciatore naturalizzato, il giocatore clandestino e, infine, anche quello esiliato e squalificato. Vestì anche i colori dei “tigrotti” della Pro Patria di Busto Arsizio, senza però poter mai scendere in campo, prima di venire ingaggiato, non senza furbesca scaltrezza, dal Barcellona di Pepe Samiter. E al termine di una lunga carriera finì per sedersi anche in panchina allenando ben undici squadre di club nonchè la nazionale iberica. Non pago, divenne allora attore, scrittore e, per solenne decreto reale, pure “Don”.

Nell’isolato dov’era cresciuto, in quel di Budapest, era da tutti conosciuto come il “ragazzino con la palla”. La sua vita ruotava, infatti, attorno a quella piccola e indistruttibile sfera di carta pressata, cucita e ricucita con amore dalla mamma. Negli anni trenta non c’erano mica tanti palloni che giravano, e quello del giovanissimo Ladislao era un fantastico surrogato, resistente e robusto. E’ un’irresistibile attrazione per tutti i ragazzini del quartiere. Con quella palla László trasforma ogni cortile in un campo regolamentare, con le porte tracciate sui muri delle case e un’intero stadio immaginario a fare capolino tra stenditoi, biciclette e cancellate.

Sarà per quello scorcio di vita trascorsa in strada o, forse, anche, per l’essere diventato adulto nelle pieghe di una guerra sanguinosa e crudele che il giovane Kubala non tollererà mai ordini o consigli, fossero pure quelli dei maestri, degli allenatori o dei suoi superiori. Nel 1946, quando arriva il momento della leva, in coincidenza con l’attesa convocazione con la nazionale magiara, László, sfruttando l’origine cecoslovacca dei suoi genitori, convince il Ferencvaros a cederlo allo Slovan della vicina Bratislava e lì ripara sino a quando le pressioni ungheresi non gli impongono categoricamente di rientrare in patria, al Vasas, per mettere la divisa. La disciplina della vita militare proprio non fa per lui e così Kubala attende la primavera del 1949 per farsi trasferire ai reparti di confine e infilarsi nottetempo nel cassone di un camion passando così la frontiera con la vicina Austria da dove con la moglie e il figlio passerà poi in Svizzera.

Ad aiutare la sua fuga ci sono il suocero Ferdinand Daucik e diversi amici, tra cui i connazionali Turbeky e Vinyei che giocano a Busto Arsizio con la Pro Patria. Il presidente Cerano lo convince a fermarsi ma, nonostante i numerosi tentativi diplomatici, non riuscirà mai a tesserarlo perché la federazione ungherese ottiene nel frattempo dalla Fifa la squalifica a vita del giocatore per la violazione degli obblighi contratti con il Vasas. László reagisce disputando molte amichevoli in qualità di ospite speciale. Scende in campo anche a Lisbona, in occasione della partita di addio al calcio di Francisco Ferreira tra Benfica e Torino. Kubala gioca bene, figura tra i migliori e negli spogliatoi dà appuntamento a Mazzola e Loik per il viaggio di ritorno. L’indomani, infatti, Kubala sarebbe dovuto rientrare con lo stesso volo del Torino, quello che finirà tragicamente la sua corsa nella nebbia di Superga, ma all’ultimo momento decide di posticipare il rientro in Italia per un’improvvisa indisposizione del figlio. Quando si dice il caso.

Kubala non si arrende alla squalifica della Fifa e tenta anche una strada alternativa. Contatta la numerosa pattuglia di esuli e fuoriusciti e mette in piedi una sorta di nazionale fantasma dell’Est. Con la leggendaria Hungaria Kubala varca più volte l’Atlantico per disputare una serie di amichevoli e approda quindi anche in Spagna dove lo notano sia il Real Madrid e Barcellona. Saranno i blaugrana a strapparlo alla concorrenza grazie soprattutto alla furbizia del direttore sportivo Samiter che mobilita il ministro e offre a László un passaporto spagnolo, la riduzione della squalifica ad un solo anno ed un ricco ingaggio. Kubala saluta Busto e se ne va a Barcellona a cercar fortuna.

Il gioco del Barca è perfetto per la sua grande duttilità. Kubala è, infatti, un centrocampista molto diverso da tutti gli altri. Ladislao gioca indistintamente bene con entrambi i piedi, non concede riferimenti agli avversari, è rapidissimo a rientrare in difesa e contrasta sempre con grande determinazione e aggressività. E’ davvero un giocatore a tutto campo e Di Stefano lo ricorda come un talento naturale “tecnicamente più puro anche di Pelé”. E’ quella sua estrema velocità di dribbling a farlo entrare nell’immaginario collettivo degli spagnoli. La “Kubalamania” cresce al pari del pubblico pagante sugli spalti al punto che il Barcellona è costretto a pensare ad un nuovo stadio per contenere tutta quella folla entusiasta che vuole godersi lo spettacolo. Saranno anni di trofei, coppe e titoli a ripetizione. Poi arriverà Helenio Herrera e l’incanto svanirà. Perché László non riesce a trovare la metrica giusta, fatica a masticare le direttive del “mago” e, così, finisce spesso in panchina tra polemiche, litigi e proteste. Tornerà a riemergere solo all’indomani della partenza di Herrera per Milano. Ma nel frattempo anche i rapporti con la dirigenza del Barcellona si sono sfilacciati e Kubala decide così di finire la carriera su una sponda diversa e avversaria, quella dell’Espanyol. Nonostante quel complicato finale, Kubala rimarrà sempre  nel cuore dei tifosi del Barcellona, al punto da essere votato unanimemente come “giocatore del secolo”. Fuori dal Camp Nou campeggia una statua che ne ricorda le gesta, la generosità e quell’indomito spirito che tanto colpì la fantasia del pubblico catalano.