Once in a lifetime: Nereo Rocco

Il 20 maggio 1912 nasce a Trieste, Rione San Giacomo, Nereo Rocco, di professione calciatore e allenatore. Di uomini come il Nereo ogni tanto ne vengono al mondo proprio da quelle parti. Perché il “Paron” veniva da un luogo speciale e incantato, da una terra di frontiera che aveva tragicamente e dolorosamente sperimentato un ampio campionario di ordinarie e crudeli banalità del male. Come tutti i triestini anche Rocco aveva imparato a resistere ai rovesci del destino piantando radici profonde in terra, per non farsi sopraffare dall’incerto, per non cedere all’angoscia per il domani, per non piegarsi al vento e ai suoi repentini cambi d’umore. Che sorte beffarda per gente d’acqua salata.

Nereo, quella dura scorza, quella solidità d’animo, se la portava dietro sin dalla nascita e cercava di trasmetterla anche ai suoi giocatori. Era un uomo di poche parole, certamente non un chiacchierone. Parlava quando era necessario, pesando ogni singola parola, magari celandola tra una battuta e l’altra nel suo stretto gramelot del golfo. Con i suoi, negli spogliatoi o sul campo di allenamento, sapeva sempre come tendere le corde giuste, come mettere in riga i fantasmi, come far crescere il gruppo, come invocarne la reazione. Perché, fuor di retorica, Rocco era davvero un sapiente demiurgo, un alchimista delle relazioni e dei sentimenti, un analista della natura umana e di tutte le sue dinamiche caratteriali. Viveva a stretto contatto con i suoi giocatori perché così ne poteva carpire i tratti più autentici e nascosti. Per come la vedeva lui, il calcio era pur sempre una questione di cuore e impegno. Ciò nonostante, amava il gioco aggressivo e manovrato, il bel gesto e le buone idee. Rocco non aveva mai paura di guardare in faccia la realtà, anche quando questa rischiava di risultare troppo amara e spiacevole.

Qualche volta gli capitava pure di sbagliare, con il rischio di scivolare nella più rigida e cupa ostinazione. Ma poi in qualche modo trovava sempre il tempo per “darsi del mulo” e andare a recuperare terreno. Rocco non ammetteva intromissioni o mediazioni di sorta. In fondo, si fidava solo del suo istinto. Quel dono speciale lo aveva allenato sin da ragazzino sui campi di calcio, nelle partitelle dell’oratorio e nelle categorie minori. A quello aggiungeva una lucidissima capacità tattica. Perché a dispetto della sua immagine naif Rocco era un attento studioso: ponderava ogni avversario, ne analizzava i punti deboli e stabiliva le marcatura. Solo allora se ne andava a fare le ore piccole in osteria a discutere con giornalisti e tecnici.

Il suo calcio era una magica sommatoria di sfide personali e incrociate, di valori, rispetto e onestà. Nereo abitava un football gentile in cui la zona era una sorta di diavoleria nemica. In quel calcio “catenacciaro” non c’era spazio ne tempo per la filosofia. Rocco giocava coperto, con due difensori centrali, ma ciò nonostante le sue squadre in campo davano sempre spettacolo. Fu così con il Padova e, poi, negli anni migliori, con il Milan dei grandi successi, il Toro e la Fiorentina. Merito di un calcio sempre equilibrato, dai reparti ben amalgamati e da una dinamica attitudine al contropiede. A tutto questo Nereo aggiungeva poi piedi buoni e grandi cervelli come i fuoriclasse Rivera o Meroni. Rocco ha vinto sostanzialmente tutto. Gli avessero fatto guidare anche la nazionale avremmo fatto mangiare la polvere anche ad un bel pezzo d’Europa. Ma, sopra ogni altra considerazione, il “Paron”, con la p maiuscola, giusto per puntualizzare, rappresentava il calcio nella sua migliore dimensione umana. Ecco perché la sua improvvisa e prematura dipartita per una polmonite malamente trascurata rimane ancora oggi un autentico shock per tutti gli appassionati. “Il calcio è un gioco che frutta solo se chi lo pratica  lo fa con divertimento”.