Once in a lifetime: George Mallory e Andrew Irvine

Il 7 giugno 1924 George Herbert Leigh Mallory viene avvistato per l’ultima volta della sua esistenza mentre sale lentamente, a quota 8.460, sul costone nord dell’Everest. Per settantacinque anni di lui non si avranno più notizie.

George non è solo. Con lui a tentare la scalata alla vetta inviolata della montagna più alta del pianeta c’è l’amico e collega Andrew Comyn Irvine. Sono due alpinisti provetti, due anime leggere, due ombre sulla montagna. Hanno entrambi cominciato ad arrampicare al college, negli anni dorati di Cambridge e Oxford, per vezzo e sprezzo, tra una lezione e l’altra, tra il rugby ed il football. Erano anni buoni per misurarsi con il pericolo ma, soprattutto, per sfidare l’aria sottile delle vette. Nonostante non abbiano ancora aperto nuove vie né battezzato nuove cime, Mallory e Irvine sono già entrati di diritto in un club limitato ed esclusivo. George, il più esperto tra i due, è addirittura considerato dai cronisti il nuovo golden boy dell’alpinismo britannico. Mallory aveva scalato facilmente il Monte Bianco violando la vetta del Maudit, poi aveva cominciato a pensare all’Himalaya. Irvine aveva preso parte alla spedizione artica scalando le montagne di ghiaccio delle Isole Spitsbergen. Sono giovani e forti, arrampicano con stile e abilità, con forza e maestria, senza spaventarsi mai, ponderando i percorsi, scegliendo meticolosamente prese e agganci. Credono nella loro rapidità. Sono convinti che alla fine sia tutta una questione di tempo, di ore e minuti come di sole e nuvole. Perché per scalare con successo servono entrambi.

Mallory e Irvine sono dei pionieri, preparati a tutto e particolarmente attenti ai dettagli ed ai particolari. Erano sopravvissuti ad una guerra dura e bestiale, alle trincee di fango e sangue e agli assalti alla baionetta. George il fronte l’ha vissuto dalla prospettiva ravvicinata di un obice di campagna. In quegli anni bui in cui avevano servito la patria il pensiero di quegli alti profili di roccia era stato il loro vero orizzonte, li aveva aiutati a resistere all’orrore e a guardare avanti, ben oltre le linee nemiche. Dei due il più esperto è Mallory. Ha già partecipato a due spedizioni nepalesi, ha tentato infruttuosamente l’attacco al tetto del mondo e adesso, costi quel che costi, non vuole e non può rinunciare. Perché, si sa, che per tutti quelli che vanno per vette la rinuncia è sempre la scelta più dolorosa, difficile e coraggiosa. La più estrema e radicale.

In quel terzo tentativo Mallory decide di forzare la mano. Non conosce esattamente tutti i rischi della famigerata “zona della morte” ma ha perfettamente capito che più si rimane a quell’altitudine più si rischia. Pensa allora che con quella finestra di bel tempo l’unica possibilità sia quella di tentare il grande balzo, affrontando uno strappo di oltre seicento metri, dal campo numero sei verso il pennacchio di ghiaccio che taglia il blu intenso del cielo. Una scommessa, una follia. Mallory capisce che il tempo a sua disposizione è finito. Tanto vale tentare.

Da sotto li scorgono salire con lentezza e difficoltà lungo il crinale al crepuscolo del 7 giugno 1924. E’ una questione di pochi attimi, poi Irvine e Mallory spariscono per sempre inghiottiti dalle nuvole. Per molti anni la loro scomparsa alimenta le ipotesi più disparate. Secondo qualche collega alpinista, i due hanno raggiunto la vetta impiegando molte più ore del dovuto e finendo tragicamente l’ossigeno delle due piccole bombole. Il buio e la montagna li avranno quindi spinti sulla via sbagliata. Secondo altri, i due si fermarono sotto la sella, a parecchi metri dalla cima, stanchi e sfiniti. Il loro attacco si spense lì, mentre cercavano ristoro e ossigeno. Con tutta probabilità la montagna li sorveglia ancora, mentre abbracciano per sempre il Chomolangma.

Il mistero non troverà soluzione per molti decenni, almeno sino al 1999, quando una spedizione della BBC torna su quel crinale e si imbatte per caso nei resti di Mallory, ancora fedelmente custoditi dai ghiacci. Il suo corpo è immerso tra le rocce e il ghiaccio a 8290 metri di altezza, a soli duecentosettantaquattro metri dalla vetta, sullo stesso spuntone di roccia dove anni prima era riaffiorata la picozza svizzera di Irvine. Settantacinque anni dopo quel 7 giugno Mallory è ancora là, stretto alla neve del “primo scalino”, sulla via del versante nord. Rimane solo da capire se i due alpinisti siano o meno arrivati in vetta. Cercarono senza fortuna la macchina fotografica di Irvine, sperando in qualche foto rivelatrice. L’avessero ritrovata, forse, quella nebbia si sarebbe sollevata. Magari si sarebbe così scoperto che Mallory e Irvine in vetta, nonostante il ritardo, la fatica, l’imminente bufera e le prime luci della sera, c’erano arrivati sul serio. La storia sarebbe cambiata, come peraltro anche quella di Edmund Hillary e di Tenzing Norgay, che là sopra, sul tetto del mondo, ci arrivarono invece con certezza molti anni dopo. Chissà.

Comunque sia andata, la loro scalata rimane una delle imprese più grandi, l’ennesima testimonianza del temperamento dell’uomo e di tutta la sua instabile e agitata fragilità. Salendo in quelle condizioni, coperti solo da abiti di panno e maglioni di lana, con corde di tessuto, picozze di legno e due piccolissime bombole di ossigeno, Mallory e Irvine andarono purtroppo incontro a morte certa. Ciò nonostante proseguirono per la loro strada sfidando il profilo della notte, in attesa che le nuvole diradassero e che la giusta via per la vetta si aprisse infine ai loro sguardi. “Perché vuole scalare l’Everest?” chiesero i reporter a Mallory mentre stava lasciando Londra per imbarcarsi alla volta del Nepal. “Perché è lì” rispose lui con un sorriso.