Once in a lifetime: Luis Ocaña

Il 9 giugno 1945 nasce a Priego, in Castiglia, Jesús Luis Ocaña Pernía, di professione ciclista. Il suo nome ci trasporta in un ciclismo ormai lontano, fatto di sudore, fango e fatica, di clamorose vittorie e rovinose cadute. Perché di entrambe Luis fu un assoluto e tragico specialista. Era sopravvissuto ad un’infanzia difficile e migrante, trascorsa da esule in terra di Francia per scampare alle forche del Caudillo Franco e alla sistematica, silenziosa e feroce repressione politica. Suo padre aveva così varcato i Pirenei e si era stabilito in un piccolo centro tra la Guascogna e la Garonna per provare a rifarsi una vita e per regalarne una più decente alla sua famiglia, ricominciando da zero, senza amici né aiuti, sperando spesso inutilmente in un briciolo di umanità e di benevolenza. La bicicletta fu sin da subito la sua fedele compagna di giochi. Crescendo divenne anche il suo mezzo di trasporto, buono per andare a fare il garzone del falegname, per affrontare, ogni santo giorno, quattordici chilometri di andata e altrettanti di ritorno. Il giovanissimo Luis fece così la conoscenza, in rigoroso ordine cronologico, della fame, della fatica e di un’ostinata voglia di riscatto. E siccome con la bici ci sapeva fare, ad un certo punto, pensò, all’insaputa di un padre preoccupato e autoritario, di provare anche a correrci.

Le prime prove furono più che incoraggianti. Ocaña sembrava fatto su misura per pedalare in sella alle due ruote. Quel suo fisico minuto e nervoso, quelle due gambe secche e cattive portavano a spasso uno sguardo dolente e malinconico, da leggenda e da impresa. Luis era nato passista ma poi, sin dalle prime corse, aveva preso gusto a cimentarsi con le ascese. Nonostante cercasse il perfetto equilibrio di forza e resistenza, accelerazione e continuità, la salita suscitava in lui un’irresistibile attrazione. Dopo chilometri e chilometri di anonimo mimetismo nel ventre del gruppone, all’approssimare della pendenza, Ocaña scatenava una temibile guerriglia fatta di scatti intensi e improvvisi, che avevano il compito di sorprendere e sfiancare, con metodo e intelligenza, tutti i migliori del lotto. Al primo inclinare dell’asfalto Luis usciva infatti dai blocchi dei gregari e, scalando furiosamente i rapporti, cominciava a spingere finendo per allungare l’ombra su tutti gli inseguitori.

Il suo nome è ancora oggi sinonimo di grandi imprese, alla Vuelta come al Tour, di scalate poderose e distacchi abissali. Il suo profilo, incurvato docilmente sui pedali ad oscillare tra destra e sinistra, morsicando polvere e asfalto, contiene tutta l’epopea delle grandi imprese e delle fughe più esaltanti sui passi alpini e pirenaici. Ocaña diventa l’inquieto mattatore delle tappe più lunghe e devastanti, quelle che mettevano assieme pendenze verticali e colli impossibili, su e giù da Madeleine, Télègraphe, Galibier e Izoard. Proprio come nella storica tappa della sessantesima edizione della “Grand Boucle”, quella del 1973, quando in un solo pomeriggio schiantò la resistenza di Zoetemelk, Merckx, Fuentes e Thévenet, lasciandoseli alle spalle fino all’arrivo, sino all’ultima tappa, sino al trionfo di Parigi.

Luis era una persona mite e schiva, taciturna e riservata, prigioniera di una pudica malinconia adolescenziale e di una tristezza antica e secolare, che, con il solito senno di poi, poteva anche apparire come il severo annuncio di un muto calar di sventura. Luis rimase sempre un ciclista irregolare e non allineato, una voce fuori dal coro. Troppo silenzioso e fuggitivo per essere considerato un figlio di Spagna, troppo estraneo e migrante per guadagnare gli applausi francesi. Pure troppo ribelle per recitare la parte del figlio devoto e riconoscente. Per questo Ocaña rimase ciclista apolide e di frontiera, perennemente in equilibrio, come uno specialista della fine arte del surplace, tra diverse culture e identità. Luis non divenne mai l’atteso eroe di due mondi, ma si trasformò piuttosto nel prototipo del campione triste e senza patria. Per quanto le sue centodieci vittorie lo portarono regolarmente a sfidare la vertigine del podio in tutte le principali corse a tappe come nelle grandi classiche, furono le disastrose cadute a conquistargli singolarmente stima e simpatia tra pubblico e compagni. Di tutte, la più amara e dolorosa capitò al Tour, in una giornata di tregenda, in uno di quei pomeriggi che il destino si diverte malignamente ad apparecchiare quando le corse decidono di andarsene in trasferta, a sfidare il cielo e i passi più impervi.

A giudicare dal nervoso e irregolare sviluppo, la Revel-Luchon sembrava appositamente progettata per regalare emozioni. Luis era vestito di giallo. Guidava da tempo la classifica generale anche se sentiva da qualche giorno il fiato del “cannibale” Merckx che, seppur tardivamente, aveva preso a stargli alle costole. A dividerli, però, un’enormità: ben sette minuti e ventitré secondi. Il caldo afoso rendeva tutto maledettamente complicato. Arrivati alla base dell’ascesa del temibile Portet d’Aspet, il sole umido decise repentinamente di consegnarsi ad un apocalittico nubifragio. Mentre sul Tour cala d’improvviso la notte e il vento scuote minacciosamente pini e abeti come fossero fili d’erba, Merckx prende a salire rabbiosamente scattando nel tentativo di andarsene. Ma Luis rimane silenziosamente nella sua scia. Mentre il resto del gruppo si ferma a schivare la grandine, aggrappandosi agli ombrelli che piovono dal pubblico e dalle ammiraglie, i due, raggiunto d’impeto il passo, si gettano a capofitto in discesa, infilandosi in una nuvola d’acqua e fango, tra paracarri e terrapieni. Su uno dei tornanti più stretti, tradito dall’ennesima incertezza del belga, Ocaña finisce lungo contro un muretto. Fa per rialzarsi ma viene disastrosamente travolto dal veloce treno degli inseguitori composto da Zoetemelk, Carril e Agostinho. La corsa di Luis finisce così all’ospedale di Saint Gaudens con due vertebre incrinate ed un grande spavento. Addio distacco, addio sogni, addio Tour. All’arrivo di Luchon, sotto un sole tornato caldo e beffardo, Merckx si riscatta e rifiuta la maglia gialla di leader per rispetto e solidarietà dello sfortunato avversario.

Luis rimase sempre un combattente. Ha battagliato in salita come in discesa, contro la tragica bellezza delle competizioni, gli altri ciclisti, il sole, la pioggia, le nuvole, se stesso e la “mala suerte”, che peraltro non lo abbandonò mai, nemmeno all’indomani del ritiro. Ocaña avrebbe potuto vincere molto di più se il crudele destino non gli avesse giocato brutti tiri, mescolandogli le carte, aspettandolo alla fine delle curve cieche, quelle più insidiose e scivolose, tagliandogli la strada nel buio delle gallerie, spingendolo al ritiro e trascinandolo in un vortice fatto di depressione e fantasmi, sino all’epilogo più tragico, al suicidio, avvenuto discretamente nella sua tenuta di Caupenne d’Armagnac il 19 maggio 1994, poche ore prima della partenza del Giro d’Italia. Luis se ne andò per sempre senza salutare nessuno, abbracciato a quella sua malinconia esulante ed a quell’inquieta e profonda ossessione. Le sue ceneri furono disperse sulle dure strade dei Pirenei, proprio là dove aveva raccolto i suoi più esaltanti successi. “Se si potesse rifare, se potessi ripartire nel Tour e morire alla fine, se qualcuno potesse propormi quel contratto, lo firmerei a due mani”.