Once in a lifetime: Éric Tabarly

Il 12 giugno 1998 scompare in mare, a cinquantacinque chilometri da Milford Haven, tra il Galles e l’Atlantico, Éric Tabarly, velista e navigatore per passione.  Questi ultimi decenni hanno inciso su molte discipline. Anche la strutturata e fine arte dell’andar per mare non si è sottratta a un mutamento profondo e radicale, ma all’epoca di “Éric il bretone” alzare le vele per sfidare il vento e le onde rimaneva ancora una faccenda estremamente rischiosa, complessa e difficile. A bordo la tecnologia si limitava alla sola radio e, così, quando la natura decideva di metterti alla prova, dovevi cavartela da solo con quello che ti eri portato dietro, con la perizia, il talento, la forza, il carattere e, ovviamente, quando c’era, l’esperienza, nell’auspicata speranza che la sorte si dimostrasse sempre docile e benevola, perché scalare le onde schiumose dal margine superiore di quell’infinito pozzo scuro è ben più spaventoso che scalare le nude pareti di roccia.

Éric apparteneva al mare e all’acqua, ma, ancor più, al vento e alle nuvole. Amava la sfida, come e più della sua barca. Quando sedeva in poppa, a tenere a bada le onde e il mare con quella sua incredibile naturalezza, era come se si calasse nella sua dimensione naturale. Perché tutta la sua vita si poteva ben concentrare in quel magico e semplice gesto dello stringere i raggi del timone. In qualsiasi situazione si trovasse e con ogni mutevole moto ondoso dovesse fare i conti, Éric sembrava avere sempre la situazione sotto controllo: manovrava con destrezza e attenzione, cercando gli angoli giusti, inseguendo il vento e mettendo prua e deriva nella miglior posizione possibile. Non era solo mestiere il suo. Per Éric quello era piuttosto un modo di essere, una vicenda di brividi e sensazioni, perché poi, quando non c’era via d’uscita, solo a quelli si affidava. Per Tabarly solo l’istinto poteva avere ragione della natura e dei suoi bizzarri capricci, perché ne era esso stesso parte integrante, più di una carta nautica, più della posizione di fiocco o randa.

Éric possedeva la fierezza dei bretoni e la sorniona furbizia dei francesi. Nel suo vocabolario la parola resa nemmeno esisteva. Viveva nel mare e per il mare. A terra si sentiva fragile e indifeso. Faticava a tenere i piedi nello stesso luogo. Era un animo nomade e navigante. Quell’amore per il mare e il vento veniva da lontano, da quando, bambino, aveva scorto in un deposito una vecchia barca abbandonata, un piccolo cutter, e aveva promesso a se stesso di rimetterla in sesto per restituirla all’ebbrezza dell’acqua. La leggenda del “Pen Duick”, nome che aveva preso a prestito da una vecchia storia dei famiglia e dalla prima imbarcazione dei Tabarly negli ultimi anni del secolo precedente, iniziò così, sulla nuda terra di un vecchio rimessaggio, ma si trasferì ben presto in mare. Quella barca svelò al giovane Éric i segreti della navigazione, sussurrandogli dolcemente tutte le antiche alchimie per dominare le spinte della natura. Fu al timone di quel piccolo cutter che Tabarly comprese il suo futuro. Avrebbe fatto lo skipper, sarebbe diventato il più temerario, intrepido e coraggioso di tutti i velisti.

Nel 1964 vince la prestigiosa “Ostar”, la regata transatlantica in solitario attraverso l’oceano da Plymouth a Newport “rubando” il vento a Sir Francis Chichester. Éric si ripete dodici anni più tardi, nel 1976, piazzandosi davanti a Mike Birch. Ma è il 1967 il suo anno più leggendario, perché riesce nello straordinario intento di far arrabbiare sia i cugini inglesi che quelli australiani aggiudicandosi con netti distacchi sia il durissimo “Fastnet” che la “Sydney-Hobart”. Tabarly diventa il protagonista assoluto di quella stagione. Conquista le pagine dei periodici e dei rotocalchi. Da lì in avanti infila una lunga teoria di imprese, una batteria infinita di vittorie ma anche qualche sonora e bruciante sconfitta.

Per trent’anni il suo cognome è stato sinonimo di vela e coraggio. Tabarly è rimasto per decenni l’ostinato fuoriclasse degli esordi, quello che aveva stupito il mondo non solo per le sue imprese ma per quello spirito da autentico lupo di mare. Éric continuò ad andare per mare cercando sempre nuove sfide, a dispetto dell’età, dell’impegno e delle crescenti difficoltà. Il destino, che sin lì lo aveva sempre e solo sfiorato, decide di convocarlo improvvisamente la notte del 12 giugno di diciassette anni fa. Éric e il suo equipaggio sono in mare da diverse ore. Il tempo non è dei migliori, le onde scalano le murate e il vento spazza la barca. Tabarly non è legato e non indossa il giubbotto di salvataggio. Non lo fa mai, perché mai dovrebbe oggi. Mentre governa il “Pen Duick” durante una virata più angolata delle altre un gancio sfugge alle corde e, ormai fuori controllo, lo colpisce violentemente scaraventandolo fuori bordo. Probabilmente è solo una banale distrazione o un momento di stanchezza in quella notte di nuvole e vento. Éric è da solo in acqua e cerca disperatamente di rimanere a galla.

I suoi compagni lo sentono gridare al buio, ma nel giro di pochi secondi lo perdono di vista. Dovrebbero allora chiamare aiuto, ma la radio di bordo non funziona. Passano molte ore prima di incrociare una vedetta gallese che fa finalmente partire le ricerche. Ma per Éric le speranze sono ridotte al lumicino, perché, a quella temperatura, in acqua non si sopravvive per molto. Tabarly scompare così in mare, per sempre. Il suo corpo non si troverà mai. Per gli amici mortificati e affranti quella circostanza è un vero sollievo, perché proprio quella è la prova che i miti non muoiono mai. Éric si congeda dal mondo nel modo che aveva da sempre sognato, immerso nel suo elemento naturale, abbracciato al caso e a quelle poche stelle che uscivano curiose a bucare le nubi.

«Tabarly – come racconta Isabelle Autissier nel libro dedicato alla memoria del leggendario velista – rimase sempre fedele a se stesso anche quando il mondo intorno a lui cambiava. Il suo concetto di barca era semplice: uno scafo, delle vele e dei muscoli. Poteva vincere, poteva perdere: l’ albero che si rompeva o gli sponsor che si disperavano erano problemi che non gli appartenevano. Navigare per lui era un’ impresa soprattutto fisica, carnale, intima, che doveva spingersi fino all’ estremo per avere un valore morale.»