Once in a lifetime: Mario Rigoni Stern

Il 16 giugno 2008 si spegne nella sua Asiago Mario Rigoni Stern, “scrittore non di vocazione”, come lo presentò Elio Vittorini nella prefazione della sua celebre opera prima “Il sergente nella neve”.

Le pagine di Rigoni Stern richiedono lo stesso rispetto che si porta alle alte vette quando si va per montagne. Ai suoi racconti ho cercato sempre di avvicinarmi in punta di piedi, proprio come avrebbe fatto lui, con delicatezza e attenzione, come quando si percorre un sentiero in quota o ci si inoltra in un bosco fitto chiedendo permesso, nella speranza di coglierne il respiro profondo, gli echi dei suo abitanti, i rimbalzi del silenzio tra i tronchi o l’incerto crepitio del fogliame. Perché leggere le sue pagine è come respirare l’aria frizzante del primo mattino, accompagnare rapiti il brivido del primo nevischio che scende leggero ad annunciare la bufera o percepire il muto inchino di fiori e fili d’erba nel silenzioso abbraccio con il primo timido sole primaverile.

Mario scriveva per necessità, per dare un senso e un significato all’esperienza del vivere. Lui, quel senso lo aveva strenuamente cercato, anche nei momenti più bui e difficili, nell’assordante orizzonte della battaglia o nella solitudine del lager, anche quando sarebbe stato molto più semplice e conveniente far finta di niente lasciando campo libero al dolore e alla disperazione. Quei ricordi, quelle storie di sopravvivenza, Mario le aveva rubate al tempo con una attitudine antica e saggia, da novello “diarista”. La sua avventura nel mondo letterario era nata così, su iniziativa di un amico che lo aveva incoraggiato a scrivere le sue memorie, a condividere con il resto del mondo quello che aveva a lungo cercato. E Mario quelle cose le ha restituite tutte, dalla prima all’ultima, con semplicità e disarmante chiarezza, perché non c’è bisogno di tante strutture per andare al cuore delle cose.

La sua scrittura è pura sensazione, trasporto fisico e viaggio. Perché nel suo narrare semplice e potente sono racchiuse le preziose esperienze di una vita, un’esistenza trascorsa a contatto con la natura e la sua crudele bellezza, dall’infanzia passata tra le dolci asprezze dell’Altipiano, le malghe in quota, i pastori, i cani e l’odore dolce del fieno alla drammatica esperienza della guerra sul fronte albanese, prima, e su quello russo, poi, sino alla dolente e infinita ritirata tra le nevi, l’abbandono, la confusione, il freddo, i morsi della fame e il pensiero di una casa lontana e irraggiungibile. Sono queste capitali dimensioni a costituire i capisaldi della sua scrittura, che tornano ad affacciarsi in tutti i suoi racconti.

I suoi libri ci consegnano un messaggio universale di pace e un invito a frequentare un maggior equilibrio con noi stessi e con i ritmi millenari del nostro pianeta, nella serena certezza di essere solo una piccola, effimera ma preziosa parte del tutto, viaggiatori di passaggio lungo strade diverse ma che conducono tutte verso lo stesso e inevitabile esito. In quel percorso non vi è traccia alcuna di pietà, quanto piuttosto di una laica comprensione profonda, di un’attenta passione per tutte le pulsioni dell’uomo, per le sue cadute e i suoi meschini affanni quotidiani, per la paura e la gioia, la tristezza e la solitudine. Nei suoi racconti di guerra non ci sono nemici, vincitori o sconfitti, ma solo vittime e persone obbligate a rimanere su fronti avversi, esseri umani infreddoliti che si fronteggiano combattendo per motivi sconosciuti e a loro incomprensibili.

Come molti dei grandi interpreti della letteratura del secondo dopoguerra anche Rigoni Stern manterrà fieramente le distanze dai dibattiti e dai salotti, rimanendo saldamente ancorato alle sue radici e ai suoi luoghi. In quel suo magico perimetro abitato da pini, abeti e alpeggi, Mario tornerà spesso ad ambientare le sue storie, declinando l’uomo e tutte le sue inquietudini lungo gli assi della memoria e del ritorno, codici universali di accesso ad un imprescindibile impianto di valori etici e morali.

Mario muore nella casa che ha costruito con le sue stesse mani, ai margini del bosco, il pomeriggio del 16 giugno 2008. Rimarrà per sempre uno dei più lucidi e grandi narratori dell’insensata e tragica follia della guerra nonché un appassionato cantore della sua terra e dell’amore per la montagna e la natura. Non andrà più a far legna, non camminerà più lungo i suoi amati sentieri, ma sarà comunque molto felice nel sapere che molti suoi lettori lo faranno quotidianamente al posto suo.

“Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno. E quando ci ripenso provo il terrore di quella mattina di gennaio quando la Katiuscia, per la prima volta, ci scaraventò addosso le sue settantadue bombarde.”