Once in a lifetime: Eddy Merckx

il 17 giugno 1945 nasce a Meensel-Kiezegem, piccolo centro delle Fiandre, Edouard Louis Joseph Merckx, di professione ciclista. In un passato non troppo lontano il mondo delle due ruote ci aveva abituato a fenomeni e fuoriclasse: gente che veniva dalla polvere e che era pronta a tornarvi, capitani coraggiosi disposti a tutto, anche a vendersi l’anima, pur di rimanere davanti al plotone. In seguito poi la storia ci ha raccontato una versione dei fatti meno edificante, svelando talvolta cosa nascondevano sotto quella loro arte ingannevole, cosa celava quella natura fragile dalla grana fina e trasparente, ben più suscettibile agli effimeri aiuti della chimica che alle leggi della fisica e della motoria. Ma, per fortuna, in molti altri casi quelle leggende sono riuscite a sopravvivere a tutto e a tutti, anche all’ombra di se stessi, alle intemperie meteorologiche come pure all’inesorabile usura del tempo.

Di corridori come Merckx non ne sono nati molti. Per più di un decennio Eddy ha fatto notizia solo quando perdeva. Il “cannibale” è uno dei cinque ciclisti ad aver conquistato tutte e tre le grandi corse a tappe, l’unico ad essere riuscito a realizzare l’accoppiata Giro-Tour per ben tre volte. Negli anni dal 1965 al 1978 ha vinto praticamente tutto: tre titoli iridati, cinque Tour de France, cinque Giri d’Italia, una Vuelta, tre campionati del mondo, un Gran Premio delle Nazioni, tre Trofei Baracchi e ventisette grandi classiche. Con un ruolino di questa portata dagli annali si transita solo per entrare di diritto nell’olimpo dei più grandi.

Merckx vinceva non solo perché, come accredita la pomposa retorica delle cronache, aveva un’insaziabile fame di vittorie, ma anche per via di un approccio del tutto personale alle competizioni. Come scrisse Adriano De Zan “quando correva, Merckx non lo faceva per se stesso o per la squadra che lo pagava profumatamente, ma per un’intera nazione che regolarmente lo seguiva e trepidava ad ogni sua impresa”. Era quella dimensione a dargli una spinta in più, quella stessa che gli permetteva di sopportare stoicamente ogni avversità, pedalando rapido in salita, come in discesa, nel profondo piano come nelle lunghe e faticose frazioni dove si sfida il tempo e tutte le proprie paure. Per Eddy questo valeva nei giorni di festa ma anche in quelli più cupi, quando magari stava male o faticava a reggersi in sella alla bicicletta, come quando portò a termine le ultime tappe del Tour, nonostante una dolorosa frattura alla mascella che gli impediva di nutrirsi, solo perché aveva promesso di dare una mano ai compagni di squadra a salire sul podio finale.

Eddy ha frequentato un’era del ciclismo moderno che assomigliava ancora a quello antico, dove tattica e strategia poco potevano se non erano al servizio di fatica e sudore, dove, gregari o meno, arrivava sempre il momento in cui dovevi cavartela da solo. Nemmeno i più attenti cultori della materia sanno indicare il numero esatto delle sue vittorie. C’è solo una proporzione che sussurrano a mezza voce chiudendo gli annuari e che a sentirla oggi fa ancora scorrere i brividi lungo la schiena: una su tre.

Una gara su tre è un primato folle e stupefacente. Basta questo a raccontare chi era Eddy e la sua infinita grandezza. Basterebbe andare a chiederlo a tutti quelli che ne hanno quotidianamente fatto le spese, a quelli che hanno ingoiato la sua polvere, a Gimondi, Zootemelk, Martens, Van Impe, De Vlaemink e. se fosse ancora possibile, anche alla povera anima di Ocana che, ad un certo punto della sua vita seguente, ha deciso di alzare bandiera bianca disertando per sempre le riunioni di famiglia.

Basterebbe passare in rassegna tutte le istantanee delle sue imprese più leggendarie, delle sue scalate impossibili e delle volate brucianti, delle discese sconsiderate e delle pedalate rabbiose, regolari e progressive. Da quell’album ideale emergerebbero tutti i luoghi del cuore degli appassionati delle due ruote, quelli che hanno trasformato il ciclismo in un’appassionata categoria delle emozioni. Di quelle pagine Merckx rimarrà per sempre il protagonista assoluto. Con l’eco delle sue avventure sono diventate adulte diverse generazioni di bambini, che si rincorrevano sui pedali simulando la concitata voce di De Zan che raccontava l’ennesima fuga solitaria sui Pirenei o in Alta Savoia.

Quel suo singolare mix di protervia, tenacia, generosità e fairplay verso compagni e rivali ha affidato alla memoria un ciclismo duro e spietato, fatto di distacchi e cadute, di nubifragi e botte di calore, ma anche di solidarietà e rispetto. Quel ciclismo oggi non c’è più. E’ definitivamente scomparso anche se ogni qualcuno, ogni tanto, prova a rianimarne i poveri resti. A custodire quelle sfide e quei successi sono rimaste solo le strade, gli alti passi e qualche spezzone televisivo, vestito a festa in quel bianco e nero virato da dove, ad un certo punto, spuntava immancabilmente fuori l’ombra lunga del belga che sulla linea del traguardo infilava mezza ruota davanti a tutta la concorrenza. “Ho avuto solo una vera e grande sfortuna nella mia carriera”, confessò Felice Gimondi diversi anni dopo il ritiro dall’attività. “Quella di aver trovato sulla mia strada uno come Eddy Merckx.”