Once in a lifetime: Denis Hulme

Il 18 giugno 1936 nasce a Whakatū, Nuova Zelanda, Denis Clive Hulme, di professione pilota automobilistico. In quell’epoca il pilota faceva il pilota. Ai box, in quell’angusto e spoglio spazio dove venivano ricoverati i bolidi in attesa del via, i driver si preparavano con naturalezza e concentrazione alla gara. Si infilavano i guantini di pelle chiacchierando tra di loro, sistemavano il casco e gli occhialoni, infilandosi nell’abitacolo della monoposto per serrare quindi la presa sul cambio in attesa della partenza, che lo starter infine abbassasse la bandiera a scacchi. Capitava anche di essere obbligati a mantenere buone relazioni con meccanici e giornalisti, ma queste si contavano sulle dita di una sola mano e venivano confinate, quasi sempre, all’interno di un perimetro di cordiale complicità. Rispetto ad oggi nessun altro obbligo di sorta incombeva sui corridori, se non quello di scendere in pista ed andare più veloce di tutti gli altri.

Nell’attuale Formula Uno a un pilota come Denny Hulme, probabilmente, non avrebbero nemmeno fatto toccare il volante. Perché, nonostante indiscutibili abilità e un’esuberante dose di cattiveria agonistica, qualità che non guastano mai e che, anzi, raggiungevano in lui vertici elevati, Hulme aveva un carattere ombroso e difficile. Per tutti nell’ambiente Denis era “l’orso”, per via di un umore stabilmente virato al nero. Era estremamente taciturno. Quando giungeva in pista salutava a malapena e rispondeva alle sollecitazioni a monosillabi. Aveva modi bruschi e risoluti e riusciva a far convivere, nelle pieghe di un imperscrutabile carattere, aspetti introversi con spigolature caustiche e reazioni veementi.

Hulme era fatto così. Non si era mai posto la questione dei limiti, nemmeno quelli comportamentali. Probabilmente la moderna psichiatria avrebbe riconosciuto gli estremi di qualche grave affezione patologica, ma, nella metà degli anni sessanta, quelli eccessi apparivano, al più, come singolari aspetti di un’instabile eccentricità, “malattia” invero assai diffusa in quel circus. Esentato dall’obbligo di intrattenere relazioni brillanti e rispettose, Hulme si trovava perfettamente a suo agio quando si calava nel budello d’acciaio della propria vettura. Era determinato e veloce, quello che si dice un brutto cliente. L’opacità del carattere si rifletteva perfettamente nella condotta di gara, sempre cinica e risoluta. Hulme era infatti capace di tenere lo stesso forsennato passo di gara per decine e decine di giri, mettendo a dura prova la tenuta psicologica dei rivali e la meccanica delle loro vetture. Aveva uno stile regolare e costante, preciso e gelido. In pista teneva alla larga gli avversari ed i compagni di squadra, anche quando questi stavano lottando per il titolo, anche quando questi erano gli stessi titolari della scuderia per cui gareggiava.

La storia del suo primo e unico titolo iridato conquistato nel 1967 è tutta qui. Denny era arrivato alla massima serie mettendosi in luce nelle formule minori. Le sue prestazioni riuscirono a convincere un personaggio diffidente e attento come Jack Brabham a schierarlo nella sua squadra di Formula 2. La Brabham dominò la stagione e la classifica generale. A “Black Jack” era andato subito a genio. Aveva apprezzato quel carattere asciutto e schivo, la capacità di messa a punto della vettura e quella rinomata brutalità in gara. Tra loro, incredibilmente, ne nacque quasi un’amicizia e tra i due volavano, spesso, battute e sfottò. Tra orsi si comprendevano, probabilmente.

Nel 1965 Jack lo schiera in Formula 1 per una manciata di corse al volante della Brabham Climax. I risultati promettenti ottenuti gli aprono le porte della riconferma. L’anno successivo Denny prende efficacemente le misure agli avversari. Risulta spesso il più veloce in gara ed arrivano così anche i primi successi, tra cui quello conquistato nel tragico Gran Premio di Montecarlo, quello in cui perde la vita Lorenzo Bandini. La Brabham Repco è estremamente competitiva e in netto anticipo sui tempi, rispetto alle nuove potenze deliberate dai regolamenti. Il 1967 si apre alla grande, con prestazioni e podi a ripetizione. Hulme comprende subito che Clark non sarà in grado di ostacolarlo nella corsa al titolo. L’unico vero avversario è il suo patron e compagno di squadra Brabham, il quale fa decisamente male i  conti. Jack crede infatti di poter addomesticare il carattere ispido e coriaceo di Hulme, è convinto di smussarne i lati spigolosi e quella sua leva agonistica facendo leva sui doveri e sullo spirito di corpo. Ma Jack si sbaglia e da metà stagione ingaggia con lui una lotta fratricida senza esclusione di colpi.

Hulme non lascia infatti spazio al compagno di scuderia. Lo chiude spesso in partenza e in gara, mettendolo in difficoltà e in imbarazzo e trattandolo alla stregua del peggiore degli avversari. Anche i rapporti al box precipitano in una spirale di rimproveri e recriminazioni, sino all’ultimo atto, all’ultimo Gran Prix della stagione, quello del Messico, dove Denny si incolla come un’ombra ai suoi scarichi portando così a casa i punti che gli servono per laurearsi campione del mondo davanti a lui, all’esperto pilota, alla leggenda delle corse, al suo datore di lavoro. Narrano i cronisti che, ancora sulla linea del traguardo, il vecchio Jack sia sceso di vettura, sia andato a stringergli la mano annunciandogli pubblicamente il suo licenziamento in tronco.

Hulme continuerà a correre spietatamente alla sua maniera raccogliendo successi e allori pur senza ripetersi a quei livelli. Avrebbe proseguito a gareggiare chissà per quanto tempo ancora, se un infarto non lo avesse stroncato a cinquantasei anni durante una gara della serie Turismo. Denny sarà ricordato per sempre come un antidivo, schivo, duro, scomodo e veloce, con una grande visione tattica della gara e una convinzione d’acciaio. Per tutti Hulme rimarrà un pilota di un’altra era e un corridore estremo che non scese mai a compromessi, neppure con il destino.