Once in a lifetime: Alan Vega

Il 23 giugno 1938 nasce a Bensonhurst, Brooklyn, Boruch Alan Bermowitz, che andrà incontro a fama e notorietà con lo pseudonimo di Alan Vega, di professione artista, cantante e musicista. Come molti esploratori sonori di quegli anni, Alan aveva radici ben piantate nella sua città, ne assecondava i vezzi, ne respirava le atmosfere e il battito profondo, lasciandosi spesso affascinare dalle sue derive. Quella città stava diventando il luogo dove accadevano le cose più significative, dove esplodevano le contraddizioni, dove si scontravano culture e intelligenze. Alan si era avvicinato alla musica da una prospettiva diversa, quella delle performance e delle arti espressive. Alla fine degli anni sessanta le esplosioni iconoclaste sono poco più di un accennato intuito. Tutto deve ancora accadere, ma a New York le inquiete spinte esistenziali cominciano a mettere in movimento idee e pensieri critici aggregando energie, talenti e visioni. Basta immergersi negli affollati concerti di Stooges, Fugs, Velvet Underground e Mc5 per accorgersi che si respira un’aria molto diversa rispetto al continente europeo, che sotto la superficie si celano inquietudine e fermento, dinamicità e tensione.

Alan aveva cominciato proprio in quegli anni ad assecondare le prime intuizioni. All’epoca abitava ancora un perimetro artistico molto ampio, frequentava l’avanguardia ed era affascinato dalle nuove frontiere delle arti figurative. Le sue prime installazioni vanno in scena, grazie anche ai finanziamenti della municipalità, al 729 della Broadway, a Manhattan, e richiamano molto interesse. Il destino gli presenta, nell’ordine, Martin Rev, un giovane e scapigliato musicista di free jazz, e Paul Liebgott, un chitarrista deluso dalla musica e dal mondo. I tre si incontrano nel 1971 al Project, una galleria famosa per organizzare eventi e performance di vario genere. E’ solo uno dei tanti epicentri artistici di Manhattan. Alan e Martin hanno un’idea folgorante: prendere l’essenza del blues, scarnificarla e fonderla con un tappeto sonoro elementare e grezzo. Si fanno chiamare Nasty Cuts e nel flyer che promuove la loro prima apparizione dal vivo all’Ok Harris Gallery fanno scrivere a caratteri cubitali “Punk Music Mass”, rubando il termine ad un esuberante articolo di Lester Bangs. E’ una delle tante straordinarie intuizioni di Alan, perché proprio quel termine, cinque anni più tardi, verrà usato da Thunders e le Dolls per raccontare al mondo un’attitudine ed uno spirito. I tre, che ben presto diventeranno un duo per l’abbandono di Liebgott, cambiano il nome in Suicide e si mettono a scavare nel quotidiano, per tentare di raccontare quello che vedono ogni giorno dalle finestre dei loro appartamenti. Quell’impianto sonoro gelido e spettrale diventa in poco tempo la colonna sonora alternativa della città, il suo battito oscuro, il lato marcio e bacato della “mela”. I loro brani raccolgono storie maledette di droga, prostituzione, alienazione, disagio e solitudine. Non è tanto il tema a sorprendere, quanto piuttosto il radicale e ruvido svolgimento.

I loro concerti sono un pugno nello stomaco. I Suicide cantano di morte e devastazione sui registri minimali di un blues malato e apocalittico, zeppo di richiami nichilistici e alienanti, ben avvolto in tappeti sonori che pulsano attorno a riff ossessivi e a batterie elettroniche inanimate, gelide e distanti. Nel giro di qualche mese il gruppo diventa il più ricercato ma anche il più inavvicinabile. Buona parte del merito è delle performance innovative, legate alla grande fisicità di Alan e ad un solido impianto di immagini e proiezioni. I loro concerti sono veri e propri happening claustrofobici e decadenti. I Suicide mostrano, in anteprima assoluta, tutte le inquiete traiettorie della musica giovanile dei successivi decenni, ma, come spesso accade nei momenti di rottura radicale, la discografia ufficiale indugia, ha paura e li ignora. Ci vorranno ben sei anni, un netto cambiamento di atmosfere e i buoni uffici dell’influente manager delle New York Dolls per arrivare all’esordio su vinile.

Quando il primo disco dei Suicide finisce negli scaffali dei negozi il mondo è improvvisamente cambiato. La forza  iconoclasta del primo punk ha fatto piazza pulita di tutte le derive di maniera e molti nuovi artisti si affacciano alla ribalta, gente che compensa la totale impreparazione tecnica con idee incredibili e folgoranti. Saranno proprio loro a salvare la musica giovanile da un lento e omologato declino. Di quella agguerrita pattuglia, Alan e Martin diventeranno il punto di riferimento, l’ispirazione e la dannazione. Le sette tracce che compongono il disco d’esordio scuotono le coscienze. Vega e Rev destrutturano la forma canzone, la rendono liquida, ipnotica, ripetitiva e ossessiva. La loro è una sorta di feroce trance meccanica, perfetto sincrono di pulsazioni, ritmo, tappeti digitali e un ricco compendio di urla, sospiri e effetti. Ad agitarsi in quei solchi c’è tutta la moderna serialità della strada, la desolazione delle periferie, l’urlo ferito di Iggy Pop e la dissonante e ossessiva oscurità dei Velvet Underground. In quei trentuno minuti di ritmo, urla convulse e rumore i Suicide rappresentano un doloroso spaccato di vita alienata e dissociata che entra di diritto nella storia del rock. Quello che verrà dopo sarà solo una confusa copia.

I Suicide completeranno con una manciata di altre prove la loro parabola regalando ai posteri un vivido e decadente affresco della modernità post industriale e lasciandosi alle spalle strade e sentieri successivamente battuti da tutte le principali derive stilistiche degli anni a venire. Alan andrà incontro ad una brillante carriera solistica, nell’ambito della quale cercherà di declinare, con effetto ed eleganza, il graffio originario in forme sonore più canoniche e accessibili. Per tutti, però, Alan rimarrà la voce e l’anima dei Suicide, colui che ha coraggiosamente rappresentato la coscienza inquieta di New York, uno dei principale protagonisti di una rivoluzione che ha scosso la musica contemporanea. Le sue provocazioni e quella fitta cortina di elettroniche agghiaccianti, fredde ed impenetrabili ne fanno un brillante innovatore. Dirà poi la storia se davvero i Suicide siano stati influenti almeno quanto i Clash. Il critico Wilson Neate non ha dubbi al riguardo. “Ascoltando il loro omonimo album di debutto del 1977, appare ovvio: il suono del synth pop, della techno e dell’industrial dance degli anni ottanta e novanta, e la New Wave dai suoni metallici faranno tutti riferimento a quell’album fondamentale”.