Once in a lifetime: Juan Manuel Fangio

Nel primo mattino del 24 giugno 1911 all’anagrafe del municipio di Balcarce, modesta cittadina a quattrocento chilometri da Buenos Aires, viene registrata la nascita di Juan Manuel Fangio, futuro asso del volante. La sua esistenza non è solo una lunga esaltante teoria di trofei, pole position, titoli mondiali e grandi vittorie, ma coincide perfettamente con l’epopea di un automobilismo impensabile e scomparso.

Fangio ha attraversato la storia. Ha visto cadere regimi e uomini di stato, ha assistito a drammi e pagine dolorose, ha corso davanti a gerarchi e dittatori, rivoluzionari e principi ereditari, ha preso rischi indicibili salendo su vetture che avevano poco più del trenta per cento di possibilità di rimanere in carreggiata o di terminare la corsa. Fangio ha gareggiato con i più grandi piloti, rimanendo in vita molto più a lungo di loro. La morte dei piloti, dei meccanici o del pubblico, all’epoca, era un fatto usuale, sostanzialmente atteso e naturale, per quanto doloroso. Andare a salutare i bolidi ai lati di strade bianche e impolverate non era avventura di poco conto; faceva parte di un fatale e affascinante gioco che in qualche modo accomunava spettatori e piloti, li metteva dalla stessa parte, tra paura e trepidazione, eccitazione e terrore. Era, in povere parole, la velocità.

Non è solo per gli incredibili numeri di una lunga carriera o per le sue memorabili imprese se Fangio è diventato per tutti “el Maestro”,  il simbolo e lo spirito più profondo della sfida automobilistica. Juan Manuel ha pilotato per tutti i marchi più prestigiosi, dalla Ferrari alla Mercedes, dall’Alfa Romeo alla Maserati. Ha tagliato per primo il traguardo, sfiorando la bandiera a scacchi, per ben 24 volte in 52 Gran Premi, come dire, quasi una volta su due, finendo a podio per altre undici. E’ partito dalla pole position in più della metà della gare che ha disputato, conquistando cinque titoli iridati, un record che ha resistito a lungo nella storia della Formula Uno. Numeri del genere si commentano da soli, soprattutto se messi in relazione a quell’epoca fragile, a quei circuiti ostili e a quelle vetture precarie che pesavano quattro o cinque volte le attuali e che stentavano a guadagnare stabilità e trazione. Quelle che correva Manuel, tra gli anni trenta e i cinquanta, non erano gare, ma poco più di un dannato giro di roulette.

Fangio era uno dei tanti italiani d’Argentina, figlio di un sogno e di una speranza durata mesi, almeno quanto il lungo viaggio per mare. Oltre che appartenere a due mondi, Manuel aveva pure due compleanni. Era nato il 24 gennaio 1911 ma venne registrato all’anagrafe solo il 24 giugno. Il padre, originario di Chieti, gli aveva regalato un temperamento ruvido e implacabile, schietto e riservato, lo stesso di chi ha sempre davanti un obiettivo chiaro e preciso, fosse anche solo la pagnotta per sopravvivere o una bandiera a scacchi per conquistare la gloria. Loreto non aveva mai avuto nulla a che fare con le automobili, per tre quarti della sua esistenza nemmeno ne aveva sospettato l’esistenza. A Manuel non aveva assicurato né rendite né bellezza: Juan era basso di statura e grassottello ma possedeva uno sguardo penetrante e volitivo che conquistava più e meglio di un fisico statuario. Aveva pure le gambe storte. Per questo gli amici lo chiamavano “el chueco”. Qualcuno azzardò che fosse proprio quella strana curvatura il  suo segreto, perché grazie a quella loro naturale piega Juan trovava nell’abitacolo una posizione più comoda rispetto a colleghi alti e longilinei.

Fangio aveva imparato a guidare a soli dieci anni per merito dello stesso meccanico che lo aveva preso in officina a fare l’apprendista lattoniere. Poi erano arrivati anche i consigli di un pilota vero e di un concessionario d’automobili, per il quale il quasi dodicenne Juan Manuel curava la consegna e il ritiro dei pezzi di ricambi coprendo in auto notevoli distanze. Furono quelle strade impossibili e fangose la sua vera scuola. Fu lì che Fangio imparò a guidare con i sensi e il cervello prima che con le mani e i piedi. Poco più tardi arrivarono anche le gare vere, su sterrati polverosi e fondi incredibili. Fangiò cominciò a vincere e non si fermò più, sino a quando quel lungo continente a sud dell’equatore si fece improvvisamente troppo piccolo per le sue grandi ambizioni.

Sbarcò quindi in Europa a cimentarsi con i migliori in età ormai avanzata, a 36 anni, e vi rimase, vincendo il possibile, sino a 48. Aveva uno stile sicuro, affidabile, bello da vedere, preciso nell’impostare le curve e nel tenere le traiettorie. Sembrava volare da tanto riusciva a mantenere fluida la linea della vettura. Battagliò con tutti i mostri sacri, Ascari, Farina, Fagioli, Gonzales,  e riuscì a sopravvivere a drammi e disastrosi incidenti, come quello di Le Mans del 1955 che costò la vita a più di ottanta spettatori e a diversi piloti. Tra tante specialità, la più incredibile era quella di entrare in curva con una marcia più alta degli avversari e con il motore che girava, quindi, almeno mille giri più in basso. In questo modo Juan Manuel non doveva scalare le marce e lottare magari con leve e ingranaggi, guadagnando così preziosi secondi. Oltre ad essere uno straordinario pilota, Fangio era anche un eccezionale meccanico. Aveva un’approfondita conoscenza tecnica dei mezzi che pilotava ed entrava in simbiosi con le parti più sollecitate, tant’è che spesso riusciva anche ad arrestare la vettura prima di incappare in disastrosi cedimenti.

Tra tante singolari avventure, Manuel provò anche l’ebbrezza del rapimento. Capitò a Cuba per mano di rivoluzionari filocastristi, in occasione del locale Grand Prix, che peraltro si concluse tragicamente con l’ennesimo bagno di sangue per l’uscita di pista della Ferrari dell’idolo locale Cifuentes. Fu per fortuna solo un’azione dimostrativa contro il regime di Batista. Fangio rimase prigioniero per il solo tempo della gara, giusto per impedirgli di prendere il via procurando quindi un enorme danno di immagine alle autorità. Venne rilasciato l’indomani mattina con tanto di scuse e calorose strette di mano.

Rimase nel giro delle competizioni anche dopo il ritiro. Fangio non fu mai personaggio comodo né accomodante. Anzi, ingaggiò spesso infinite sfide polemiche con costruttori, giornalisti e piloti. Ciò nonostante le sue opinioni vennero sempre tenute nella massima considerazione. Non sarebbe potuto essere altrimenti, perché comunque era l’unico “maestro” che il circus avesse mai tollerato.

«Non ho mai pensato all’auto come a un mezzo per conseguire un fine. Ho piuttosto sempre pensato a qualcosa di cui facevo parte, come una biella o un pistone.»