Once in a lifetime: Pietro Mennea

Il 28 giugno 1952 nasce a Barletta Pietro Mennea, velocista per passione. Il suo cognome è entrato da tempo nella leggenda dello sport, ma, ai suoi anni, Pietro era solo uno dei tanti ragazzi del sud cresciuti inseguendo un sogno. E, mai come in quel caso, il sogno fu frutto di grande determinazione. Perché Mennea ha sempre fatto da solo. Si è inventato un modo per uscire dall’angolo, per pensare ad un futuro diverso da quello che lo avrebbe accolto. Mennea non aveva solo una grande passione per l’atletica e la corsa, ma era anche un ragazzo forte, deciso e con una propria visione del mondo. Pietro prendeva la vita alla sua maniera, cercando di prendere tutto quello che gli poteva offrire.

Si era reso conto sin da giovanissimo che la vita di sconti non ne fa. Per questo si era abituato a non regalare mai niente a nessuno. Correva per vincere, per il gusto della sfida, per arrivare primo e quando, poi, ce la faceva a tenersi il resto del mondo alle spalle, mentre tagliava il traguardo di slancio e rabbia, alzava alto il dito al cielo per chiedere conferma dell’impresa, per urlarla prima a se stesso e, poi, anche al mondo. Perché proprio quello era il modo che aveva scelto per sentirsi parte del tutto, per cercare il suo posto in campo.

Aveva cominciato a correre molto prima di farlo sul tartan delle piste d’atletica. Correva sempre, per gioco, per andare a prendere il latte o per sfidare le automobili, per scherzo o scommessa. Pietro correva sostanzialmente perché non poteva fare altrimenti, perché solo così teneva lontane le ombre e i fantasmi. Correva per il gusto di farlo, per essere veloce, per arrivare prima. Correva contro tutto o tutti, gli avversari e gli scettici, l’ipocrisia e la stupidità. Correva per vincere. Quando lo fai per sincero agonismo non è certo per arrivare secondo. Perché se corri esiste solo la vittoria.

Mennea era un lottatore. Chissà quale disciplina avrebbe scelto se madre natura non gli avesse regalato polmoni capienti e muscoli di acciaio. Pietro non mollava mai, anche quando partiva in griglia con lo sfavore del pronostico, quando doveva farsi spazio tra granitici colossi americani e frecce russe figlie del vento. Lui, il piccolo, esile italiano di Barletta, che faceva mangiare la polvere a mezzo mondo, usciva dei blocchi veloce ma esitante, sembrava quasi che faticasse a trovare ritmo e passo necessari a coordinare quella perfetta sincronia di leve, movimenti e spinte. Poi, superato lo choc di quel rabbioso scatto, inesorabile, cominciava a rivenire, a recuperare l’orizzonte mangiando centimetri su centimetri agli avversari, uscendo quindi dalla curva soffiandogli sul collo, affiancandoli e sfilandoli con una prodigiosa e furente accelerazione. Gli ultimi cinquanta metri erano pura leggenda, passione e adrenalina, proprio come la voce del cronista che ingoiava fiato ed affanno in una parossistica giostra di eccitazione quasi per cercare di spingerlo sulla linea del traguardo, verso quell’ultimo magico balzo di reni, quel tuffo finale e decisivo che toglieva il respiro.

Mennea era una bellissima favola, buona per raccontare il mondo ai piccini ma anche per dare una prospettiva ideale ai più grandi, fantastica per misurare l’agonismo e la sportività, lo spirito e l’impegno, la determinazione e la sana cattiveria. Le sue sfide contro il tempo è il vento, il cronometro e l’altura, contro la maglietta rossa di Valery Borzov e quelle blu dei velocisti statunitensi, hanno fatto storia, inchiodando per ore un’intera nazione davanti all’incerto e sgranato bianco e nero televisivo. Perché di tutte le discipline umane, che si materializzi sulle ripide discese di ghiaccio di una montagna, sul liscio asfalto di un circuito o su un lungo rettilineo di gara, è sempre la velocità a rapire il cuore di tutti, ad abbattere confini e limiti, sconfiggendo, anche solo per pochi istanti, leggi naturali mai digerite.

Pietro è stato tutto questo. Ha continuato ad esserlo anche quando ha deciso di smettere di correre, prendendo una laurea, facendo politica, cercando sempre un’idea del mondo, un suo contributo originale da lasciare in eredità agli altri. Perché Pietro non ha mai conosciuto compromessi o mezze misure, nell’impegno come nella fatica e nella velocità. Era il primo che scendeva in pista e l’ultimo ad andarsene, quello che diceva sempre quello che pensava, a scanso di equivoci o mal di pancia, senza paura di polemiche e discussioni. Anche in questo Mennea era davvero unico, un numero uno anche quando arrivava secondo.

“Ero come un viaggiatore che stava per partire. Ogni corsa è un viaggio. Mi chiedevo: ho preso tutto? Ero alla ricerca di un tempo, troppe volte perduto. Pensai fosse la volta buona. Remai un po’ in curva, controllai la sbandata all’entrata del rettilineo, non smisi di spingere, stavo andando a trentasei chilometri all’ora con le mie gambe. Corsi i primi cento in 10″ 34 e i secondi in 9″ 38. Arrivai con sei metri di vantaggio. Il pubblico urlò, ma io non ero sicuro. Non c’erano tabelloni elettrici, allora. Mi girai. L’unico cronometro era alla partenza. Guardai le cifre, forse avevano sbagliato anno? Eravamo nel ’79 non nel ’72, mi vennero tutti addosso, ci fu una grande confusione, non riuscivo più a respirare.”