Once in a lifetime: Annibale Frossi

Il 6 luglio 1911 nasce a Muzzana del Turgnano, in provincia di Udine, Annibale Frossi, di professione calciatore, allenatore e giornalista. Annibale fu una leggendaria ala. Giocò in molte squadre tra cui l’Udinese, il Padova, il Bari, ma fu la lunga militanza con l’Ambrosiana, con la cui maglia nerazzurra scese in campo ben centoquarantasette volte, a regalargli la meritata notorietà. Frossi era veloce come il lampo; quando accelerava sulla fascia, palla al piede, era praticamente impossibile da prendere. Aveva lo spunto del velocista. Narrano i cronisti che coprisse i cento metri in poco più di undici secondi, un tempo da Olimpiadi, a cui peraltro riuscì mirabilmente a partecipare in altra disciplina. Nonostante grandi capacità, Frossi divenne fatalmente famoso anche per essere il giocatore con gli occhiali. Annibale era miope sin dalla nascita. Quelle lenti erano la sua vita, la sopravvivenza e la speranza. Ebbe fortuna, perché i regolamenti dell’epoca, in fatto, erano sufficientemente nebulosi e gli consentivano di scendere comunque in campo.

In quel calcio eroico, pieno di fasce, bende e retine, Frossi divenne l’icona del giocatore con gli occhiali. Non se ne separava mai e li assicurava con un elastico alla nuca. Quel difetto non gli impedì mai di eccellere. Perché Annibale, che per tutti, sul terreno di gioco, era “pel di carota”, per via dei capelli, aveva molti altri talenti. Frossi era, infatti, dotato di un tiro incisivo e di una grande disciplina tattica. A ciò, aggiungeva una singolare capacità nel leggere per tempo l’azione. Quella sua abilità di intuirne gli sviluppi, unitamente alla facilità della corsa e alla rapidità di movimento, non lasciava scampo nemmeno alle difese più attrezzate. Ma Annibale era anche abilissimo fuori dal campo quando era necessario toccare le corde giuste per motivare lo spogliatoio. Frossi avrebbe, senza dubbio, fatto strada anche senza il calcio. Ma il football gli diede una bella mano. Come, ad esempio, quando, caporale maggiore di fanteria della “Gran Sasso”, venne spedito, via mare, in Etiopia a difendere il discutibile onore nazionale. Quel suo viaggio però durò molto poco. Riconosciuto, infatti, dai superiori, fu subito sbarcato d’imperio e trasferito tra le montagne de L’Aquila per volontà di un potente gerarca fascista, che lo schierò in campo nella locale squadra di cui era presidente con l’obiettivo di centrare la promozione in Serie A.

Nonostante tutto, quella stagione tra i cadetti fu davvero fortunata, non solo per le sue brillanti prestazioni ed i gol che gli aprirono finalmente le porte del professionismo. Quella stagione fu anche quella dell’esordio in maglia azzurra. Fu tutto merito della determinata ostinazione di Vittorio Pozzo, che andò a pescarlo sulle montagne aquilane convocandolo nella giovane rosa dei giocatori che avrebbero disputato l’atteso trofeo alle Olimpiadi di Berlino del 1936. Annibale giocò quattro partite realizzando ben sette reti e trascinando gli azzurri sino in finale con l’Austria, dove fu proprio una sua doppietta a regalare il titolo olimpico all’Italia.

I successivi anni trascorsi a Milano furono straordinari e ricchi di soddisfazioni. Annibale trovò anche il tempo di frequentare l’università e prendere una laurea in legge. Una volta salutati i campi, pensò a far carriera con un impiego normale, lontano da palloni e stadi, magari in un ufficio, magari all’Alfa Romeo, che lo assunse prospettandogli una fulgida carriera. Ma, ancora una volta, la sorte lo andò a cercare, riservandogli invece una lunga e rispettabile carriera di allenatore. Frossi guidò, così, Luino, Mortara, Monza e Torino, prima di essere chiamato, nel 1956, da Angelo Moratti all’Inter per una parentesi breve e sfortunata. Seguirono poi altre città ed altri incarichi che lo portarono in giro per la penisola, a Genoa, a Napoli, a Modena e a Trieste. Annibale era un’allenatore preciso ed estremamente attento a tattiche e strategie. I suoi moduli si imperniavano sempre su difese arcigne e robuste, su raddoppi di marcatura e alchimie tattiche che puntavano a confondere i piani avversari. Per questo e per la sua naturale tendenza a trovare ogni volta le adeguate contromisure alle trame avversarie si guadagnò il soprannome di “dottor sottile”. “Lo 0-0 è il risultato perfetto” era solito dire, “perché espressione dell’equilibrio totale tra l’attacco e la difesa delle squadre in campo.”

Ma la vita non smise di riservargli delle sorprese. Perché quella sua lucida capacità di valutazione e di giudizio aveva anche sposato, negli anni, una scrittura semplice, efficace e misurata. Fu così che verso la metà degli anni Settanta Frossi, l’uomo degli occhiali, il “dottor sottile” del calcio italiano divenne anche un valente e stimato collaboratore fisso del Corriere della Sera per il quale si occupava periodicamente di presentare i temi tecnici della partita di cartello. La sua lunga corsa si concluse, infine, a Milano il 26 febbraio 1999, all’età di ottantasette anni. Avesse vissuto ancora qualche anno avrebbe avuto la possibilità di rivedere le maglie azzurre trionfare nello stesso stadio che settant’anni prima lo aveva incoronato campione olimpico.