Once in a lifetime: Roger McGuinn

Il 13 luglio 1938 nasceva a Chicago James Joseph McGuinn III, di professione musicista. Esistono momenti cruciali nella vita di ciascuno di noi che impongono cambiamenti di rotta e traiettoria, imponendo severi ripensamenti di strategie o schiudendo nuove ed inattese prospettive. Non è detto che coincidano con eventi importanti, date e scadenze. Anzi, più spesso, sembrano solo la risultante bizzarra di una casuale grammatica del quotidiano. Per il giovane Jim, che presto cambierà il proprio nome in Roger, per via del movimento spirituale Subud di cui diventerà attento appassionato, quel momento determinante coincise con una chitarra, o, meglio, con un film ed una chitarra.

E’ il 1964, un anno di grande importanza per i destini della musica giovanile. L’idea di mettere su una band, per Jim McGuinn e il suo irrequieto amico David Crosby, è poco più di un’insistente intuizione. I due ne discutono da un po’ con il comune amico Gene Clark. Esiste già un nome, The Jet Set, c’è pure una vasta rosa di riferimenti stilistici, ma a mancare sono la scintilla, la trance e la spinta propulsiva di una visione. I due sono a caccia di uno stile che li smarchi dal resto del mondo. Jim è da tempo impegnato a tallonare le ombre lunghe dei folksinger del Village, David si lascia invece affascinare dalle scale diatoniche del jazz e dalla frontiera, dall’improvvisazione e dai nuovi linguaggi. L’aria che si respira è elettrica come il futuro: tante cose si stanno muovendo e gli stimoli, a volerli recepire, sono moltissimi.

Poi, una sera, capita che i due decidano di andare al cinema. Nelle sale sta circolando da qualche giorno l’ultima creatura di Richard Lester, che, senza nulla togliere al regista, è, in realtà, l’ennesima esplosione creativa dei Fab Four, già alle prese con umori e tensioni che incideranno in profondità gli anni a venire. “A Hard Day’s Night” è il titolo di quel lavoro e racconta le esilaranti fughe dei quattro e tutto il loro instabile e fertile universo espressivo. E’ un’opera colossale e leggera che chiude una stagione prima della rivoluzione che verrà. Jim e David apprezzano con diverse intensità i Beatles, ne amano la straordinaria capacità di tessere armonie e di catturare l’esprit del momento, ne respirano gli stessi tempi veloci e la medesima curiosità. Quella band ha dato uno schiaffo al passato e sta parlando di un domani ancora sconosciuto ai più. Ma, su tutto, c’è una cosa in quei fotogrammi che inchioda McGuinn sulla poltroncina. E’ una Rickenbacker 12 corde suonata da George Harrison. Quel suono affascinante e misterioso e quel rimbalzo metallico lo scuotono per sempre. Per Jim, tra il prima e il dopo della storia, c’è solo un negozio di strumenti e un pacco di corde di ricambio.

Jim e David stanno per cambiare volto alla musica statunitense, anche se uscendo dal buio della sala, pur nell’eccitazione del momento, non ne ha ancora la sensazione. Su quella Rickenbacker 360/12 e sul modo di tendere le corde scivolando sui tasti ruota tutta l’incredibile modernità dei Byrds e di McGuinn. Quello scroscio splendente di note, quel “jingle jangle” che illuminerà ogni cosa, come un buon sole di prima mattina, diventerà il marchio di fabbrica della ditta, a partire dalla bruciante e straordinaria versione di “Mr. Tambourine Man”, che stravolge il futuro anthem di Dylan scalando ogni classifica di gradimento e presentando al mondo quel nuovo suono nervoso e tremendamente cool. La cosa singolare, il vero corto circuito, accade poi. Perché la sorte vuole che George Harrison rimanga talmente impressionato dalla cascata di “note tintinnanti” che scaturisce dalla chitarra di McGuinn da usare quelle stesse sonorità per “Nowhere Man”, uno dei suoi migliori numeri di sempre e, forse, la gemma più splendente di “Rubber Soul”, l’album che i Beatles danno alle stampe nel dicembre dell’anno successivo.

McGuinn aveva una forte personalità, come peraltro tutti i suoi compagni di viaggio. Quello fu il maggior talento ma anche il principale difetto di quel supergruppo, che alla fine bruciò in un universo musicale perennemente inquieto, instabile e di grande tensione creativa, che impedì sempre alla band di trovare un assetto definitivo. Anche per questo il percorso dei Byrds rimarrà unico. Perché prima del loro affacciarsi sulla scena, nel 1965, il rock era rock e il folk era folk. L’energia del Merseybeat filtrava attraverso le radio mentre Dylan e compagni trasformavano in manifesto collettivo un universo lirico e poetico che era, sin lì, rimasto patrimonio di singoli troubadour ed outsider irrimediabilmente individualisti. Poi arrivarono McGuinn e soci e le cose presero una direzione diversa, intrecciando creativamente mondi musicali distanti ma contigui ed attribuendo a temerari ossimori un nuovo e suggestivo significato.

Dalla comparsa sulla scena della band di McGuinn le traiettorie stilistiche presero infatti a contaminarsi.  Il loro folk-rock rappresentò un’originale e formidabile ibridazione tra due visioni sonore. McGuinn rimarrà l’ispiratore e il timoniere di un bastimento irrequieto che attraverserà moltissime stagioni, andando incontro a diverse decine di drammatiche svolte, sia di organico che di stile. Roger, al pari di Gene Clark, Chris Hillman, Michael Clarke e David Crosby, è stato l’anima più autorevole e lucida del sodalizio, quella che è rimasta a lavorare per la “ditta” sino in fondo, sino alla fine dell’intrigante avventura. Con lui in cabina di regia, i Byrds rimasero per un buon decennio un gruppo decisivo, influente e seminale che indicò e suggerì nuovi percorsi e strade, abbattendo convenzioni, porte e recinti, senza peraltro mai diventare portavoci di nulla e nessuno. Quando tutti gli altri si metteranno sulle loro tracce, loro saranno già altrove, magari alle prese con un qualche nuovo “Mind Garden”, impegnati a volare otto miglia sopra il resto del mondo o pronti a perdersi nelle trame di qualche singolare sperimentazione sonora, tra misticismo spaziale e profumi raga-rock e psichedelici.

McGuinn, da par suo, ha continuato negli anni a rincorrere quella brillante attitudine degli esordi, cercando di tenere aperto il passaggio sul confine a forza di ballads in bilico tra universi sonori diversi. Per questo spirito pionieristico, per questa sua visione straordinariamente lucida e curiosa, Roger è rimasto negli anni un riferimento ed un icona musicale di grandissimo fascino presidiando la zona centrale dell’ideale family tree del rock statunitense.