Once in a lifetime: Enrique Guaita

Il 15 luglio 1910 nasce a Lucas Gonzales, piccola e rinomata capitale del lino, nel distretto argentino di Nogoyá, Enrique Guaita, goleador di mestiere. Enrique il gol lo aveva nel sangue e nel codice genetico. L’”Indio”, come lo avrebbe acclamato il pubblico di Buenos Aires per la carnagione olivastra, aveva infatti un padre che a calcio ci sapeva fare e che si era lasciato alle spalle miseria e stenti abbandonando Menaggio e le splendide rive del Lago di Como per andare a cercare futuro in Argentina. Guaita era un attaccante puro, abile in qualsiasi zona offensiva venisse schierato. La natura lo aveva dotato di fiuto e senso della posizione, cosa che, nella vita come in una partita di pallone, risultano sempre decisivi. Con L’Estudiantes de la Plata, dove giocò sei anni, fece sfracelli. Guaita andava in rete con un’impressionante regolarità: la terrificante media di un gol ogni due partite lo proiettò in nazionale a far compagnia a talenti sudamericani e ad una manciata di geniali italiani d’Argentina, come Luisito Monti e Mumo Orsi.

Come loro, Enrique volle tornare nelle terre dei suoi avi. Fu sufficiente una convocazione del maestro Pozzo, impegnato a costruire la nazionale che doveva dare la scalata al titolo mondiale, e lui capì che era arrivato il momento di cambiare continente, di salutare La Plata e il suo barrio per indossare la maglia della Roma sventolando una cittadinanza nuova di zecca, ottenuta in velocità e per decreto. Guaita era un attaccante rapido e agile e, per questo, finì spesso per essere schierato all’ala destra, a pungere le difese avversarie e ad ubriacare, con qualche funambolico dribbling, gli avversari lanciandosi in un’imprendibile fuga sulla fascia laterale. Singolarmente, proprio una fuga ne segnò drammaticamente la brillante carriera.

La mattina del 19 settembre 1935 Guaita dovette presentarsi alla caserma di via Paolina, vicino a Termini. L’invito era chiaro e perentoreo. Era una cartolina inviatagli dall’ufficio di leva, e, propriamente, non gli era stata spedita per portargli un caro saluto. Enrique avrebbe dovuto sostenere la visita per prestare servizio militare. Era una strategia precisa del regime, pura propaganda. L’Italia stava avventurandosi in terra d’Etiopia, alla ricerca del famigerato posto al sole, e tutti avrebbe dovuto dare il loro contributo. Tutti, anche i calciatori. Poche parole e una visita sommaria ne decretarono il futuro bellico: Enrico Guaita e i suoi compagni naturalizzati Stagnaro e Scopelli, con cui componeva la celebre “cortada argentina”, avrebbero servito la Patria nel corpo dei bersaglieri, con le piume di gallo cedrone sul cappello ed un fucile a tracolla.

Il “Corsaro Nero”, soprannome che Testaccio gli aveva regalato dopo un’entusiasmante tripletta rifilata al Livorno in una domenica in cui la Roma era scesa in campo con una compiacente livrea nera, ha appena compiuto venticinque anni. Si è da poco laureato Campione del Mondo ed è all’apice della carriera. Ai Mondiali dell’anno precedente Enrique scende in campo in quattro partite: segna il gol decisivo nella semifinale vinta 1-0 contro il Wunderteam austriaco ed è sempre lui ad affidare alla bella anima di Angelo Schiavio il pallone del gol decisivo nella finale contro la grande Cecoslovacchia. A Guaita piacciono la bella vita e le donne, le notti capitoline e il pallone. A lui di quella guerra lontana, in terra d’Africa, interessa poco o nulla. Ne segue con apprensione i prodromi retorici sulle prime pagine dei giornali, assiste al montare di un isterico nazionalismo e conta, con nervosismo e preoccupazione, i giorni che lo dividono da quella visita a cui è stato invitato senza troppa cortesia. Sotto sotto, probabilmente, gli è pure passata la voglia di scherzare e si comincia a sentire ben più argentino che italiano. Quella cartolina gli ha cambiato del tutto l’umore e, forse, anche la vita.

I tre calciatori, usciti dal distretto, con il comando in mano, filano di corsa dal direttore sportivo Biancone che tenta invano di rassicurarli. Quella era, con tutta probabilità, un’operazione di facciata, solo fumo. Non sarebbero mai partiti per il fronte, sarebbero rimasti a Roma, a giocare per la Roma. Ma, sollecitato dai tre, Biancone non vende più certezze di quelle che possiede. Quel tentennamento è una mezza conferma. Non sia mai. Guaita e i suoi compagni trovano un passaggio per la costa ligure, per Santa Margherita. Da qui proseguono in treno alla volta di Parigi e delle coste francesi. La traversata atlantica per l’Argentina è questione di pochi giorni, sufficienti per ingrossare ad arte il mistero della loro scomparsa dalla Capitale regalando, poi, la più bruciante delle certezze. Quella fuga è uno scandalo ed un pesante smacco per il regime, che non tarda a reagire. In poche ore, da eroe, Guaita e i suoi colleghi diventano nemici pubblici, dei traditori e degli infami mercenari.

Racconterà, poi, il lento incedere del tempo di un intrigo degno di qualche opera di William Somerset Maugham, di suggeritori occulti che agevolarono la fuga spingendo i tre verso il ritorno l’Argentina, di un complotto ordito ai danni di un presidente ebreo che dava fastidio e che poi, di fronte a un’accusa infondata di traffico di valuta viene, guarda caso, costretto a rassegnare le dimissioni per la gioia dei gerarchi. Guaita rimarrà comunque in Argentina. Tornerà in campo per altre buone stagioni con il Racing e, quindi, con l’Estudiantes. Qualche anno più tardi confesserà anche di aver agito d’impulso e sulla base di informazioni sbagliate e tendenziose che, forse, avrebbe dovuto verificare con maggiore attenzione. Per molti anni Enrique rimase un disertore e gli fu così inibito di tornare a calpestare il suolo italiano.

Ma lui quell’accusa infamante non la digerì mai. Perché Guaita era un anima gentile, un signore leale e comprensivo, sia in campo che fuori. Una volta, durante una partita del campionato argentino, l’arbitro, coperto, non vide gli esiti di una furibonda mischia in area di rigore e quando, infine, vide il pallone rotolare in rete fischiò in direzione del centro del campo. Ma Enrique alzò la mano per fermare i compagni, raccolse la palla e la porse gentilmente all’arbitro confessando che quel gol lo aveva segnato con una braccio.

Guaita era un gentlemen distratto e riluttante. Abbandonò il calcio a soli 30 anni. Provò a cimentarsi con qualche impiego, divenne anche il direttore del carcere di Bahía Blanca, ma poi, fatalmente, perse il posto. Morì nel 1959 a causa di un tumore, in assoluta povertà, solo qualche mese prima di compiere 49 anni. Di lui, della sua incredibile storia e delle sue fughe sull’ala destra, in Italia si ricordarono veramente in pochi.