Once in a lifetime: Jean Behra

Il 1 agosto 1959 muore a Berlino Jean Behra, di professione pilota automobilistico. La storia di Jean è la storia di una grande rivalità che iniziava tra curve e rettilinei ma che, spesso, finiva anche fuori da quei perimetri di cemento e asfalto, senza alcuna cattiveria o scorrettezza, senza polemiche o proteste ma, pur sempre, con garbo, rispetto e fantasia, come s’addiceva ai codici dell’epoca, come richiedevano le circostanze o come apparecchiava la sorte, da cui tutto o quasi dipendeva. La storia di Jean è la cronaca del tentativo di un talentuoso outsider di scalzare gli invincibili mostri sacri, la speranza di un pilota francese di sconfiggere gli assi italiani. La sua storia è la storia di ogni sport e di ogni sfida. La sua è la storia di tutti noi.

Il sogno di una vita

Jean correva da sempre, ma quelli, nonostante le opportunità, erano anni difficili. La guerra , oltre alle vite e al futuro delle persone, si era portata via anche le gare e, alla fine, Jean aveva dovuto attendere la fine delle ostilità per coltivare il suo sogno. Nel primo dopoguerra aveva preso a domare motociclette, perché poi quella era la porta di accesso  più comoda a quel mondo veloce. La sua Guzzi avrebbe richiesto molte attenzioni ma Jean non si poteva permettere molto di più di quanto nervi e riflessi gli avessero fatto dono. Corse così tre stagioni nel motomondiale senza ottenere i risultati sperati, messo perennemente in difficoltà da un mezzo potente ma anche critico e con tanti acciacchi. Raramente prende la bandiera a scacchi e, quando succede, sta remando con difficoltà nelle retrovie. A non mancare sono invece le cadute, alcune veramente disastrose, di cui fa collezione. Comincia a pensare che le due ruote non facciano al caso suo. Comincia a pensare che il futuro stia da un’altra parte.

Una magnifica ossessione

La Formula 1 lo accoglie con un mezzo sorriso, lo stesso con cui era solito accompagnare gli scherzi e gli sfottò che organizzava ai danni di cronisti e amici. E’ “Il mago” a prenderlo sotto la sua ala protettrice. Gordini cerca piloti veloci e coraggiosi, gente di poche parole da far correre sui suoi bolidi. Gli offre un volante e tutta la sua grande esperienza. Behra si unisce così a Manzon e a Trintignant: la Gordini, nonostante i natali bolognesi del suo omonimo fondatore Amedeo Gordini, è la scuderia francese per eccellenza, la speranza transalpina di far mangiare la polvere a quei fanfaroni di italiani. Perché Amedeo era diventato cittadino parigino a tutti gli effetti, anche per la legge: le sue vetture nascono lì, come i motori che disegna personalmente, respirano tutte l’atmosfera e l’energia della Ville Lumiere, contano sulla benedizione e, ciò che più conta, sulle risorse dei governi transalpini. Gordini non naviga in buone acque e Behra è la sua nuova scommessa. Prepara in fretta e furia i nuovi modelli da far correre in Svizzera, sul circuito di Bremgarten, a Berna, per la prima prova del campionata, ma non riesce a completare in tempo la seconda. Lascia il compito ai fidi meccanici. Toccherà direttamente a Behra portare la T16 da Parigi a Berna sfrecciando su strade vicinali, tra le vigne della Borgogna e le salite del Giura. Behra compie un doppio miracolo: non solo arriva in tempo per le qualifiche, ma parte bene e finisce ancora meglio. Il suo esordio in Formula 1 è epocale: finisce terzo dietro le rosse Ferrari di Taruffi e Fischer. Quella sfida con le vetture del cavallino diventerà la sua vita, la sua magnifica ossessione.

La vittoria di Reims

La T16 era veloce quanto e più delle altre vetture, solo che andava gestita e curata a dovere. Per tutta quella sua prima stagione Behra lotta con i migliori. In prova è sempre tra i più veloci, ma in gara la fortuna si dimentica spesso di lui, almeno sino al Gran Premio della Marne. Si correva a Reims ed era gara di assoluto prestigio anche se non rientrava in calendario per una vecchia rivalità con Rouen. Ci correvano tutti i migliori. Era la migliore occasione per regolare i conti. Così fu, perché Jean dominò finalmente il Gran Premio tenendosi in scia le Ferrari 500 F2 di Nino Farina e Alberto Ascari che per tutta la durata della gara non riuscirono mai ad avvicinare il bolide celeste. Quel pomeriggio di giugno del 1952 non è solo Behra a salire sul gradino più alto del podio, ma è tutta la Francia.  Nonostante quella prima grandissima stagione le successive non furono altrettanto esaltanti e dopo due anni amari passa alla Maserati con la quale torna immediatamente competitivo. Finisce diverse volte sul podio sfiorando la vittoria a Buenos Aires sia nel 1955 che ne 1956. Nel frattempo corre anche in altre categorie e affronta diversi e drammatici crash, come quello in cui incappa all’Isola di Man nel 1955 dove durante una gara del circuito “Tourist Trophy” finisce per capottare malamente strisciando per centinaia di metri sull’asfalto sino a procurarsi una gravissima lesione all’orecchio destro. I medici non riusciranno a salvarlo e gli prepararono una protesi che Behra si toglierà, quindi, ogni volta che dovrà indossare il caschetto.

Un pilota scomodo in una scuderia scomoda

Jean scalpita. Sente che il suo tempo sta passando e cerca un volante davvero competitivo. Vuole la Ferrari, vuole provare a domare il cavallino rampante. Dopo la fragile esperienza vissuta con la BRM dell’Owen Racing che lo porta al traguardo solo in due occasioni, il 1959 sembra iniziare sotto i migliori auspici. Arriva infatti l’attesa chiamata del Drake che lo convoca a Maranello e lo ingaggia, a parole, come prima guida. Ma si sa che Enzo era particolarmente attento alle parole e salta fuori che quella è tutta farina del sacco di Behra. I contratti nulla dicono al riguardo. Jean è caduto in un equivoco perché Ferrari non è scuderia da prime guide, diranno poi i cronisti. Comunque sia, i rapporti con i tecnici della scuderia di Maranello si fanno, sin da subito, estremamente critici. Behra e la Ferrari faticano a capirsi e i reciproci freddi atteggiamenti non favoriscono certo il dialogo. Caratteri troppo diversi, si sussurrò in seguito, ostinazioni del tutto simili, osservarono i più attenti. In quella già precaria situazione qualche errore più del dovuto ed una bella teoria di guasti e noie tecniche faranno fatalmente precipitare il clima in una spirale di estrema tensione.

Il destino lo attende all’AVUS

L’arrivo in squadra del velocissimo Tony Brooks è la goccia che fa traboccare il vaso. Jean rompe platealmente ogni rapporto e alla vigilia del Gran Premio di Francia lascia la scuderia italiana. Il Gran Premio successivo è quello tedesco. E’ uno dei più spettacolari: si tiene sul circuito berlinese dell’AVUS, un anello infido e pericoloso, privo di qualsivoglia sicurezza e composto da due lunghi rettilinei di oltre 10 chilometri e da due spettacolari curvoni, di cui uno, quello posto a nord, fortemente sopraelevato. Proprio lì, tra le barriere della curva Nord, lo attende il destino. Nonostante le incertezze Behra decide, per severo puntiglio, di essere comunque presente sul circuito, anche se al volante di una vettura Sport (un suo vecchio pallino, una Porsche RSK) ed anche solo in altra categoria per una gara di contorno. E’ una questione di principio. Jean è teso ed arrabbiato. Vuole far vedere al mondo quanto vale il suo piede. Al quarto giro, la sua Porsche grigia numero 21 sbanda più volte nell’impostare la sopraelevata, punta pericolosamente il muso verso il cielo e vola letteralmente fuori pista a tutta velocità, oltre le protezioni, trovando tragicamente sulla sua strada l’asta di una bandiera. L’asta cade al suolo, l’auto di Behra si spezza in due tronconi, esattamente come la sua fragile e leggendaria esistenza.