Once in a lifetime: Peter Adolph

Il 2 agosto 1946 arriva nelle edicole del Regno Unito il nuovo numero di “The Boy’s Own Paper”, popolare e storico comic per ragazzi dedicato a storie di avventura ed eroi. A pagina 53, incastrata tra una pubblicità di francobolli e l’offerta di lezioni per corrispondenza, compare una piccola ma epocale inserzione. Il bozzetto contiene un disegno di una miniatura ed un pallone, al cui margine spunta un fitto elenco di articoli e prezzi e, soprattutto, uno slogan,”il calcio con le dita”. Quella straordinaria idea è farina del sacco di Peter Arthur Adolph, da Turnbridge Wells, nel Kent, giovane impiegato dell’Ufficio Pensioni, appassionato ornitologo e attento studioso delle specie volatili.

Qualcosa più di una passione

Quella per i giochi da tavolo era qualcosa più di una passione. Per il giovane Peter era un richiamo, una specie di sfida a cui consacrerà tutta l’esistenza. In quel primissimo dopoguerra la Gran Bretagna cerca di risollevarsi dimenticando la tristezza, l’angoscia e il dolore. C’è voglia di normalità, e il calcio, al pari di cinema e teatro, è uno dei modi più diretti e straordinari per tornare a vivere, per riprendere le misure al futuro. Il calcio del sabato pomeriggio raduna ormai decine di migliaia di tifosi e riempie le gradinate di stadi sempre più grandi regalando atmosfere incantate, colori e sciarpe. Il football è roba da grandi ma ruba la fantasia e riempie i sogni di ogni bambino. Pensa che bello sarebbe se ogni ragazzino potesse provare quelle emozioni anche dentro le pareti della propria casa, magari su di un tavolo della propria cameretta. Peter ripensa alla sua infanzia, al tempo passato ad annoiarsi in casa a giocare a carte in compagnia dei propri amici. All’inizio è poco più di un’intuizione confusa, poi diventa un’idea che si fa strada tra mille dubbi e domande. Alla fine diventa una certezza: Peter avrebbe provato a riprodurre quel gioco, quel fatato mix di dinamismo e poesia, in scala 00, la stessa dei trenini, a grandezza di dito e di ragazzino. Sul mercato esisteva già una cosa dalle caratteristiche simili. Risaliva agli anni venti e si chiamava “New Footy”. Quel gioco mancava però fatalmente di realismo e le incerte figure di carta dei giocatori faticavano a resistere all’usura del tempo. Probabilmente anche per questo “New Footy” non incontrò mai il favore del pubblico più giovane.

“The Hobby”

Peter era alla ricerca di ben altro. Non voleva creare solo un gioco in scatola, voleva di più. Peter voleva prendere uno stadio, i suoi colori, le sue immagini, il suo fascino e regalarlo ad ogni giovane appassionato. Voleva il massimo di realismo e funzionalità, cercava l’anima dinamica e l’essenza del calcio. Adolph si concentrò su come si potesse trasferire tutto questo nelle sue miniature, su come inserire nel gioco imponderabilità e incertezza. Staccò dei bottoni da un vecchio cappotto di sua madre e li sistemò alla base dei giocatori che aveva sagomato e ritagliato nel cartone, così che potessero liberamente basculare in tutta precarietà senza mai cadere. Saranno proprio quelle basi artigianali a fare la storia, più dei futuri ricchi accessori e delle magnifiche riproduzioni tridimensionali. Per il resto, Peter si affidò a fantasia e creatività. Quel passatempo si sarebbe dovuto chiamare “The Hobby”, così aveva deciso, ma l’Ufficio Brevetti respinse il nome per via della sua eccessiva indeterminatezza. Nessun gioco poteva chiamarsi in quel mondo, aggiunsero ironicamente gli impiegati. Ma Peter rimase di diverso avviso e pensò di aggirare la questione. Per assonanza gli venne in mente uno dei suoi animali preferiti, il falco lodolaio euroasiatico,”hobby hawk” in inglese, e ne riprese l’originario nome scientifico, falco subbuteo. Gli sembrava un segno del destino, un bel modo per prendersi la rivincita su quattro ottusi burocrati. Quel football da tavolo si sarebbe così chiamato Subbuteo.

L’inizio di tutto

Peter era silenzioso, timido e accorto. Non era certo uomo da avventure o salti nel buio. Prima di investire in quell’avventura quattrino che peraltro non possedeva voleva cercare qualche conferma valutando se quella strampalata creazione potesse davvero piacere ai più piccoli. Furono quelle necessità a cambiare il suo punto di vista, a farlo andare coraggiosamente incontro alla sua potenziale clientela. Quell’idea, destinata non solo a fare scuola ma anche a rivoluzionare le politiche di vendita e di marketing, spuntò all’improvviso. Peter preparò un prototipo, ne depositò il brevetto e pubblicò quella famosa inserzione pubblicitaria andandosene negli Stati Uniti per un viaggio di lavoro. Il suo non era certo un azzardo, quanto piuttosto una sorta di test. Al ritorno dal viaggio avrebbe deciso se quell’investimento si sarebbe potuto fare. Erano da poco scadute due settimane dalla partenza che ricevette un allarmato telegramma da parte di sua madre. Chiedeva istruzioni, chiedeva cosa diavolo dovesse fare con tutte quelle lettere e, soprattutto, con quelle 7596 sterline di ordini postali giunti al loro recapito da ogni parte dell’Inghilterra. Adolph rientrò immediatamente a casa, mise i soldi in banca e sviluppò in fretta e furia, con la collaborazione di familiari e amici, quel suo nuovo prodotto. Poche settimane ancora e tutti gli ordini sarebbero stati soddisfatti. Era solo l’inizio. Nacque così uno dei più longevi giochi di sempre.

Dalla “Munich Edition” all’Astropitch

Il Subbuteo, croce e delizia di intere generazione di adolescenti brufolosi, nerd impenitenti e adulti mai cresciuti, si trasferì dalla smisurata fantasia di Adolph alla produzione di massa che, al suo apice, nella prima metà degli anni ottanta, lo diffonderà nei mercati di più di cinquanta Paesi catturando l’interesse compulsivo di oltre dieci milioni di appassionati. Quell’inizio incoraggiante si trascinò in scia tutta la successiva modernità. Negli anni seguenti arriveranno, infatti, anche gli stampi, le plastiche, le basi calibrate, le miniature tridimensionali, gli “heavyweight”, i “lightweight” e gli “zombies”, la “Munich Edition”, una scatola a tre piani zeppa di accessori che turberà i sogni di tutta la mia adolescenza, l’Astropitch, la torre tv con i cameramen, i cartelloni segnapunti, le porte “World Cup”, i mitici fari, le transenne, le tribune coperte e gli spettatori esultanti, badando sempre al massimo del realismo e della qualità. Quel mondo, messo fuori produzione all’inizio del nuovo millennio dalle consolle, scalzato da velocità e nuovi giochi, continuerà invece a crescere nell’ombra sino a riprendere commercialmente vita qualche anno fa, riconquistando agguerrite nicchie di mercato, e passando nuovamente in dote da genitore a figlio e da nonno a nipote.

Le dimissioni

Nel 1968 Peter Adolph vendette il suo straordinario sogno alla Waddington per un bel po’ di sterline, ma si rese subito conto che le cose sarebbero andate in una direzione che non gli sarebbe piaciuta. Anche per questo pensò di levarsi di torno prima che fosse troppo tardi e il 30 settembre 1970 rassegnò le proprie dimissioni dall’azienda. L’inventore del più grande “football game” della storia se ne andò per sempre in silenzio più di venti anni più tardi, il 17 marzo 1994. Pur in colpevole ritardo, a nome di una sterminata platea di bambini ormai invecchiati, dedico quest’oggi a Peter i miei pensieri, con gli stessi occhi lucidi di quando, in una mattina di un 13 dicembre di moltissimi anni fa, la sua piccola e incommensurabile creatura comparve sul tavolo della cucina di casa mia, apparecchiata nottetempo da mio padre e con le squadre già schierate per il primo kick in punta di dito, il primo di tutti quelli che poi ne sarebbero seguiti.