Once in a lifetime: Lee Hazlewood

Il 4 agosto 2007 muore a Henderson, Nevada, Barton Lee Hazlewood, di professione autore, cantante e produttore musicale. Lee ha vissuto la sua intera esistenza come un divo del cinema, come un attore di qualche film di Sam Peckinpah, di uno dei suoi celebri western, critici, amari e “di ritorno”. Il suo diario quotidiano ha assunto con il tempo le sembianze di una commedia decadente, una di quelle che piacciono tanto ai registi di Off-Broadway: una storia di stelle e antieroi che si rincorrono lungo strade incerte, tra ascese e cadute, successo e miseria, sino al più tragico degli epiloghi. Lee è così transitato dalla miseria al clamore del palcoscenico conoscendo il successo e la caduta, la confusione dei grandi studi televisivi e il silenzio del ritiro, il furore creativo di nuovi e sempre più singolari progetti e il tragico peso di rovesci finanziari che lo hanno fatalmente trascinato dalle prime pagine dei rotocalchi al taglio basso delle pagine di cronaca. Lì in mezzo, in quel grande spazio bianco tra titoli e colonne, c’era tutta la sua vita, il suo successo e il suo grande talento, sprecato al meglio come sono soliti fare solo i più grandi. Perché Lee fu un autentico hit-maker, uno dei più grandi autori del sogno pop degli anni sessanta, uno di quelli che ha testardamente sempre fatto da solo, un genio maledetto, inquieto e ribelle.

Come Serge

La parabola e l’arte di Hazlewood assomigliano, per certi versi. a quelle ancora più leggendarie di Mister Gainsbourg. Come Serge, Lee aveva intuito come bilanciare provocazione e melodia, carisma e professionalità, irregolarità e relazioni sociali. Come Serge, balzò spesso agli onori della cronaca più per lo stile di vita che per gli indiscussi meriti artistici. Come Serge, rimase fieramente e sino in fondo un outsider, rifuggendo il facile consenso. Alla musica Lee c’era arrivato sin dalla metà degli anni cinquanta per caso, per necessità e per sfuggire ad una prospettiva di estrema difficoltà. Aveva frequentato un’abbondante dozzina di impieghi senza affezionarsene. Il mondo delle note gli aveva aperto un’inaspettata prospettiva. Fu l’esercito, che lo arruolò per la guerra in Corea, a metterlo davanti ad un microfono di una radio. La musica sarebbe diventata la sua nuova casa. Lee aveva tanti talenti, ma il più straordinario era quello della scrittura. Hazlewood aveva  infatti una particolare sensibilità per comporre canzone mescolando registri e ingredienti. Era speciale nel nascondere con arrangiamenti melodici strutture compositive spesso innovative e irregolari.

Il sodalizio con Nancy Sinatra

Lee era la quintessenza del pop. Possedeva quel tocco magico ed, al contempo, eccentrico che fa, da sempre, la differenza. Sino ai primi anni sessanta Lee frequenta assiduamente il country, il blues e il rock, scrive numerosi brani di successo e produce dischi per Duane Eddy e Sanford Clark. Poi si ferma, tentenna e pensa anche al ritiro. Colpa di quell’invasione di gruppi inglesi che stanno cambiando il mondo. Lee comprende che ha bisogno di interpreti all’altezza. Serviva non solo una buona voce ma, anche e soprattutto, presenza e spirito. Hazlewood cercava una musa, ma non una qualsiasi, però: pensava a una cantante giovane che avesse stile e carattere nell’interpretare le sue mirabili schegge. Il destino, e qualche buona parola del vicino di casa Jimmy Bowen, gli fece conoscere Nancy, la brillante e ribelle figlia di Sinatra, e la sua traiettoria fatalmente mutò. Ne nacque un lungo sodalizio artistico. Lee e Nancy divennero in breve la coppia più chiacchierata e irregolare della musica pop sin dagli esordi di Ike e Tina Turner. Hazlewood regala a Nancy hits immortali come “These Boots Are Made For Walking”, “Some Velvet Morning” e “Summer Wine”, piccole gemme che resisteranno egregiamente anche all’usura del tempo. Risolse anche qualche piccola frizione familiare e di questo Frank Sinatra gli fu eternamente grato. In segno di riconoscenza, gli spalancò le porte della Decca e della Reprime, la sua casa discografica. Lee, che aveva già imparato a muoversi con scaltrezza, traendo il massimo vantaggio dalle situazioni, ne approfittò al volo.

La leggenda delle “Lee Hazlewood Industries”

Alla metà degli anni sessanta Los Angeles era il centro del mondo, il luogo dove accadevano le cose più importanti, dove da un’idea nascevano imprese epocali. Lì tutto era possibile. Poteva capitare di andare a cena con Phil Spector o gli Stones, di giocare a carte con Burt Bacharach o di tirare l’alba con Dean Martin. Poteva anche succedere di fondare una casa di produzione discografica con pochi dollari ma tante idee. Lee mostrò grande fiuto artistico ed offrì contratti ad una manciata di straordinari e incompresi talenti, da Jack Nietzche, a Mike Post sino a Gram Parsons, coprendo molti generi che andavano dal country al soul, dalla psichedelia al pop. La storia della sua factory fu in realtà anche la storia di un turbolento universo creativo, il cui baricentro era stabilmente rappresentato dall’efficiente presenza di Suzie Jane Hokom, che diventerà il suo braccio destro e la sua compagna, e che si dividerà tra l’attività di cantante, designer e produttrice. Furono anni di grandissima attività. Il telefono della “Lee Hazlewood Industries” squillava di continuo e Lee passava freneticamente dalle camere d’albergo al bancone dei lounge bar, dagli studi televisivi alle sale di incisioni, dove investiva risorse e denari in produzioni sempre più temerarie e coraggiose. Arrivarono offerte prestigiose e straordinarie, come, ad esempio, quella avanzata dalla Apple Records che Lee rifiutò sdegnosamente per questioni contrattuali e per paura dell’invadenza creativa dei Fab Four. Così, man mano che passavano i mesi e gli anni, Lee cominciò a perdere contatto con il mondo reale e si lasciò travolgere dal suo inesauribile flusso creativo sino a smarrire fatalmente lucidità. Hazlewood continuò a rincorrere le sue visioni incrociando l’orbita di meteore sempre più sconosciute. Ad un certo punto della sua storia i telefoni smisero di squillare, i soldi finirono, i finanziatori presero a tormentarlo e le attività si fermarono drammaticamente.

Il declino e la riscoperta

Per mettersi al riparo dai creditori, da un incombente crack finanziario e dalle pretese del fisco, Lee dovette così riparare oltre confine, in Svezia dove si stabilì mentre la sua stella si avviava lentamente al tramonto. I suoi lavori solisti si eclissarono sino a scomparire nella nebbia dell’oblio, almeno sino agli anni novanta quando la Sub Pop lo contattò per ottenere la licenza di ristampare i suoi vecchi dischi. Lee rifiutò. Il suo nome però tornò comunque ad essere cool, se mai avesse smesso di esserlo, e le nuove generazioni ripresero a suonare i vecchi brani mentre la sua voce profonda e quel suo oscuro modo di rimaneggiare note e destini divenne un saldo punto di riferimento per un sacco di anime inquiete come Nick Cave, Jarvis Cocker e Richard Hawley. Ma Lee, ancora una volta, rimase ostinatamente ai margini, perdendosi tra le ombre del passato e i fumi del’alcol. Attese la fine dei suoi giorni che arrivò infine nel 2007 per un cancro ai reni. Nonostante una discussa e contraddittoria personalità, malgrado una palese instabilità artistica ed emotiva, Lee rimane una figura chiave per il futuro della pop music di quegli anni, un cowboy psichedelico dal destino triste che ha avuto il merito di aprire sentieri successivamente battuti da una folta schiera di talenti.