Once in a lifetime: Joe Boyd

Il 5 agosto 1944 nasce a Boston Joe Boyd, di professione talent scout e produttore musicale. La storia della musica non è fatta dai miti. Quantomeno, non solo da loro. Le rockstar, i troubadour, le bands e i famigerati talenti dell’effimero regno televisivo l’hanno popolata poi, per il sadico gradimento dei blogger tossici e per il piacere dei retori del dizionario enciclopedico. La musica non è fatta solo da loro e nemmeno dalle centinaia di classificazioni a cui ci ha assuefatto la modernità. L’esigenza di codificare la complessità, di masticarla e renderla più digeribile possibile, ha infatti regalato allo zelante giornalista schemi e griglie con cui piegare e catalogare la contemporaneità in un’orgia di stili, scuole e famiglie, di tipi e sottotipi, di un perenne “pre” e di un tragico e permanente “post”. Dagli anni Ottanta la critica ha così investito buona parte della scarsa lucidità nel coniare etichette e distinzioni bizantine, offrendo straordinari argomenti di discussione ad una gioventù amabilmente perditempo e scioperata. Di lì, francamente, ci siamo passati tutti. Di quei codici qualcuno ne è pure rimasto prigioniero.

La storia non la scrivono le band o gli artisti 

In realtà, la storia della musica è cosa seria. E’ una materia algida e imperscrutabile che sconfina nel caos e che risponde ad un giro di roulette più che alle trame di un’intelligenza creativa. Quasi tutti i più recenti “fenomeni”, le varie ondate, i flussi e i riflussi, le scene e le scuole si sono materializzate al tavolo di una pizzeria, tra una birra e una margherita, o sulla scrivania degli influenti A&R delle grandi compagnie. Ciò nonostante, capita ancora che, a forza di insistere con queste insulse fanfaronate, qualcuno sprechi del tempo prezioso a favoleggiare sovrastrutture, cercando contenuti, alibi o spinte ideali dove invece c’è sempre stato solo vomito, sudore e una gran botta di ormoni. La storia della musica non è stata fatta dalle band o dagli artisti. A scriverla sono invece stati tanti piccoli protagonisti, gente che è rimasta sempre nell’ombra, ai margini del palco, e che raramente ha conosciuto il privilegio della ribalta: promoter visionari, dj radiofonici, artigiani del suono, backliner frustrati, tour manager spietati, designer intransigenti, geni scapestrati, fonici curiosi e, soprattutto, produttori coraggiosi ed ossessivi. Come, ad esempio, Joe Boyd, uno dei padri nobili della musica popolare e del rock.

Newport 1965

Joe non sapeva cosa fosse il rock, anche perché  il rock non esisteva ancora. Il giovane Boyd si era avvicinato alla musica inseguendo le code lunghe dei grandi miti del jazz. A quei suoni notturni e inquieti si era avvicinato per una sorta di richiamo ancestrale, per capire e conoscere artisti, per sbarcare qualche lavoretto e rimediare due soldi. Fu così che conobbe George Wein, un noto produttore che presidiava da tempo quella frontiera e che conosceva tutti i grandi protagonisti di quella stagione. George lo prende in simpatia e lo arruola nella sua organizzazione. Riconosce subito il vero talento di Joe, quel suo modo affabile e fermo nel fronteggiare le situazioni più stressanti. Wein affida così a Boyd la gestione degli artisti più critici. Lo porta con sé in Europa per fare da balia in tour ad un peso massimo come Coleman Hawkins, i cui ritardi e le cui bizze erano proverbiali nel giro che contava. E’ la migliore gavetta possibile per un giovane pivello che vuole intuire come funziona quel mondo. Nell’estate del 1965 Joe finisce a Newport. Il festival dedica una serata a mostri sacri come Miles Davis, Coltrane, McCoy Turner, Monk e Art Blakey. Joe pensa che quello sia un evento epocale, ma non sa ancora che la vera svolta della sua carriera salirà su quello stesso palco due giorni più tardi. Perché la vita di Boyd e quella di decine di migliaia di persone cambierà radicalmente quando Dylan attaccherà il cavo della sua chitarra all’amplificatore regalando un nuovo ed eccitante futuro alla musica giovanile. Sono fiorite tante stravaganti leggende sul perché il vecchio Bob, un folk singer osannato e all’apice della fama, decise di prendere una chitarra elettrica ed alzare i volumi e la tensione. Merito forse di qualche fonico visionario o di qualche produttore male in arnese. Ma questa è un’altra storia. Fatto sta che a Newport, quella domenica 25 luglio, il pubblico si divise tra feroci proteste. C’era gente che, tra le urla di sdegno, voleva signorilmente tagliare i cavi della corrente, mentre un’altra buona fetta di audience rimase completamente a bocca aperta, estasiata e felice davanti a tutto quel provocante sfoggio di energia. Joe fu tra questi. Di lì a poco le traiettorie sarebbero mutate. Sarebbero esplosi i Byrds, i Grateful Dead, i Jefferson Airplane e gli Who, e, cosa assai più determinante, sarebbe arrivato anche l’interesse della middle class e, con esso, i soldi veri. Il rock sarebbe diventato un fenomeno musicale di massa e di costume. Il rock sarebbe diventato un buon affare.

Dal palco dell’UFO ai Pink Floyd

Newport fu una sorta di confine tra il prima e il dopo. Il giorno successivo si scatenò la corsa. Tutti volevano quei suoni, tutti volevano suonare quello strano blues elettrico, ma Boyd era già davanti a tutti, era salito sull’onda più alta e la stava cavalcando. Con l’amico Hopkins fonda il seminale UFO Club e comincia a far suonare quella strana e nervosa avanguardia, incoraggia tutte le derive successive e introduce Londra alle delizie della nuova era psichedelica. Scopre molte bands. Tra queste si imbatte anche in un manipolo di ragazzi che sembrano avere più follia e talento degli altri. Boyd vince le loro ritrosie e ne produce il primo singolo. “Arnold Layne” dei Pink Floyd diventerà un successo talmente enorme che Boyd non riuscirà più a convincerli a firmare per la sua etichetta, l’Elektra. Questo rimarrà uno dei suoi più amari rimpianti.

Un’incredibile stagione di talenti

Boyd attraversa tutta quell’incredibile stagione diventando un produttore di culto e lavorando con grandi talenti, come Nick Drake, i Fairport Convention, Richard Thompson, Nico, John Martyn, i Soft Machine e la Incredible String Band. Di tutti si porterà via un pezzo e tutto tornerà utile nei decenni a venire quando siederà spesso in cabina di manovra per pilotare in porto centinaia di produzioni di profilo che si riveleranno prodighe di influenti conseguenze sui sentieri successivi, come, ad esempio,”Fables of The Reconstruction” dei REM o “Workers Playtime” di Billy Bragg. Joe è sin qui rimasto sempre fedele alle sue intuizioni. Non è mai sceso a compromessi, preferendo la qualità ai grandi numeri, e di questo la storia della musica gliene rimarrà per sempre grata.

“Ho un ricordo bellissimo di tutti i musicisti che ho prodotto, ma tengo più vicini al cuore quelli che non ci sono più: Nick Drake, Kate Mc Garrigle e Chris Mc Gregor.”