Once in a lifetime: Elliott Smith

Il 6 agosto 1969 nasce ad Omaha, in Nebraska, Steve Paul Smith, di professione musicista e autore. Come tutte le anime fragili e inquiete, anche Elliott non è appartenuto a nessun tempo. I suoi brani, le sue ballads e quel tocco lieve ed elegiaco che ne ha spesso caratterizzato la scrittura gli hanno permesso di superare barriere e strettoie, mode e tendenze. Elliott è rimasto un artista letteralmente marginale, che ha sempre camminato sui bordi preferendo la difficile ricerca di un punto di equilibrio ad un comodo e facile approdo. Così i suoi brani delicati hanno varcato indenni le forche caudine dell’etichetta e del catalogo ed ancora oggi, a distanza di decenni,  suonano appassionati e tragici, poetici e sognanti, esattamente come la sua breve vita.

Un modo singolare di vedere la realtà

Per Elliott, pseudonimo sotto cui pudicamente celerà il suo vero nome, la musica non era un vezzo né un passatempo. Quel mesmerico universo sonoro rappresentava la sua casa, il rifugio dove si rintanava per sfuggire a cose più grandi di lui che faticava a comprendere e frequentare. Nella sua storia non c’è spazio per la solita retorica della timidezza, il dramma dell’incomunicabilità o l’incapacità di affrontare le cose. La parabola di Elliott è, piuttosto, il racconto in presa diretta di un modo singolare ed autentico di entrare in contatto con la realtà, con ciò che lo circonda. La musica lo aveva preso per mano ancora bambino. Il divorzio dei genitori lo aveva trasportato a Dallas. Il nonno era un provetto batterista, la nonna una brava cantante: tra quelle mura la musica era l’unica cosa che non mancava mai. Jazz, blues, ma anche country, folk e l’intero songbook dei Beatles furono i suoi primi compagni di giochi, quelli con cui sarebbe cresciuto in perfetta solitudine. A dieci anni  suonava vari strumenti e componeva già con il pianoforte esibendosi in saggi e concorsi. La sua prima chitarra gliela regala però il suo padre naturale, le prime botte gliele rifila quello adottivo. Elliott, già timido e introverso, va incontro ad un’adolescenza difficile e complicata. La cosa più semplice è chiudere la realtà fuori dalla porta della camera. Così farà sino alla maggiore età e quando potrà. Scappa da casa di sua madre e va a vivere a Portland da suo padre.

Dagli Heatmiser al debutto solista

I tempi del college e dell’Università trascorrono felici, non solo per via dello studio ma anche per le amicizie che nascono e che sfoceranno nella prima seminale band. L’incontro con Neil Gust apre infatti la prima parentesi artistica. Gli Heatmiser maneggiano sapientemente le chiavi e i codici del loro tempo. Quel suono ruvido basato su impetuosi riff di chitarra e su un deciso impatto ritmico tradisce incessanti ascolti di Fugazi e Afghan Whigs. Ma tra le trame di tanto vigore si intravvede già la lucida penna di Elliott, quel suo modo unico ed irregolare di mescolare i registri. Sono gli anni del grunge ma il tono chiaroscurale di quei primi dischi sembra discostarsi dal consueto e muscoloso pulsare di bassi e batterie per allinearsi piuttosto a toni agrodolci che ricordano molto da vicino le pennate di Paul Westerberg o il mondo obliquo di Malkmus e dei suoi stralunati Pavement. Tutto quell’aggressivo rumore che sta attorno e che fa da codice d’accesso a svariate generazioni di artisti si rivela spesso una comoda scorciatoia per nascondere incertezze melodiche o scritture poco originali. Così è per molti carneadi di quella intensa stagione, ma non per lui. Elliott accetta la sfida, smette la chitarra elettrica e passa all’acustica. Il suo primo album, “Roman Candle”, diverrà un piccolo ed inquieto capolavoro di malinconica dolcezza, una sorta di corto circuito tra l’urgenza della modernità, una claustrofobica introspezione e le maestose ombre di Nick Drake.

Lui, Jeff Buckley e Mark Linkous

Nel giro di qualche anno la sua carriera solista sfornerà un set di capolavori, mediamente in equilibrio tra sonorità acustiche e arrangiamenti più strutturati, come accadrà nelle pagine più fortunate, in “Either/Or” e, ancor più decisamente, in “XO”, dove fanno capolino anche il pianoforte, le tastiere e qualche apertura d’archi. I suoi brani colpiscono per perfezione ed essenzialità: i ritornelli entrano in testa e non ne escono più, le chitarre scuotono l’animo e agitano nebbie malinconiche, i testi affrescano paesaggi introspettivi. Elliott è divenuto ormai un cantautore maturo e attento. Quella sua attitudine notturna scomoderà molti paragoni, perché quelle prove soliste ricordano molto da vicino gli angoli più intimi e fragili di Jeff Buckley e di Mark Linkous, alias Sparklehorse. Con loro Elliott condividerà singolarmente anche le svolte di un tragico destino.

L’inizio della fine

Smith sembra un artista sul punto di spiccare il volo. La Dreamworks spinge in quella direzione. Ci sono un pò di attese da soddisfare. In quel clima Elliott comincia a perdere un po’ della sua proverbiale lucidità. L’album successivo ha, infatti, un lungo e laborioso parto e vede la luce solo nel 2000, dopo molti ripensamenti. Alla fine ne esce un lavoro di passaggio che sposta il baricentro verso un suono più rotondo e pieno, quasi fosse un  tentativo di cercare un punto avanzato di sintesi tra tutte le stagioni precedenti. “Figure 8” presidia un confine incerto e irrisolto, tra la spinta melodica dei refrain, la vischiosità degli arrangiamenti chitarristici e la grigia opacità di un critico umore di fondo. Elliott non sceglie dove dirigere le macchine, non trova una specifica direzione. Forse anche per questo il disco non raggiunge gli apici precedenti. Elliott accusa il colpo. Quella crisi costante, sin lì esorcizzata e magicamente trattenuta nelle fragili trame della sua musica, sembra purtroppo cercare altre strade.

L’ultimo fatale passo d’addio

Smith non trova più pace né riparo tra le note dello spartito e comincia fatalmente a scivolare nell’ombra. Non si concede più alla promozione né alla stampa. Le sue uscite dal vivo si diradano drasticamente. Elliott torna a rinchiudersi in se stesso, come faceva spesso da bambino. La caduta accelera, purtroppo, per i calmanti e l’alcol. Cerca di mettersi al lavoro sul nuovo disco ma nemmeno quello lo distoglie più dalla prospettiva del baratro da cui si lascia dolcemente attrarre. Così tutto scorre sino all’ultimo giorno finale, sino alla notte del 21 ottobre 2003, in cui decide di buttarsi via del tutto in circostanze ben poco chiare, regolando definitivamente i conti con il presente e il futuro. Lo piangono in molti perché lascia un vuoto incolmabile. Elliott rimarrà per sempre uno dei maggiori talenti della sua generazione, originale e intenso, affascinante e delicato; come i più grandi non ha mai recitato un copione scritto da altri ed ha saputo trasporre in musica tutta l’incertezza e la fragilità delle sue ossessioni, senza cadute di tono, almeno sino all’ultimo fatale passo d’addio.