Once in a lifetime: Dmitrij Šostakovič

Il 9 agosto 1975 muore a Mosca Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, di professione compositore. Dmitrij era uno spirito inquieto. Dietro quel viso altero e distaccato celava umori mutevoli, radici profonde e vezzi leggeri. La musica fu la sua vita ed a lei si affidò per superare molte prove impegnative con saldezza e forza d’animo.

Un uomo serio, severo ma acceso da grandi passioni

Nonostante l’apparente severità, Dmitrij Dmitrievič era uomo di grandi passioni, non solo per le note ed i mirabili intrecci dei suoi formidabili registri pianistici. Come molti intellettuali della sua epoca, Šostakovič si accendeva per cose più materiali, per la danza, il gioco delle carte o il calcio, per la sua Dinamo Leningrado, di cui era solito seguire le lunghe trasferte in treno. Il football lo aveva stregato e, per qualche anno, aveva addirittura accarezzato l’idea di una carriera da arbitro, ruolo che gli pareva congeniale al suo misurato e grave senso del reale. Amava le lettere e il rassicurante rituale delle relazioni sociali. Su tutto, aveva un’autentica predilezione per il sapore agrodolce del grottesco, quello stesso che animava il respiro maestoso di molti autori russi. Come molte personalità complesse e poliedriche, anche Dmitrij Dmitrievič adorava la chiarezza e il particolare. Šostakovič prestava attenzione a dettagli spesso assolutamente insignificanti, allo scorrere del tempo, alla punteggiatura e alle pause, perché, confidava ai pochi amici, anticipavano sempre qualcosa. Tra molti e ben celati interessi mostrava una speciale devozione per i necrologi, di cui era avido ed attento lettore. Amava il ritmo di quelle sobrie convenzioni, l’idea che dell’esistenza di ciascuno di noi si potesse recuperare e trasmetterne l’essenza a quelli che seguivano, all’eternità. E molte delle sue costruzioni musicali e dei movimenti si mostravano, invero, affini all’arte del supremo commiato, sia per i toni elegiaci delle partiture che per la fatale solennità dei registri,  dove, sostenevano i critici, Dmitrij Dmitrievič era solito nascondere i fantasmi e le anime di tutti gli amici scomparsi.

San Pietroburgo e quel legame così profondo, antico e viscerale

Šostakovič era la musica; una musica emozionata, strutturata, creativa e profonda. Si narra che con le note rincorresse luci e ombre, cercando di sciogliere quel sottile senso di angoscia che, a suo dire, permeava ogni espressione umana. Dmitrij Dmitrievič era uomo di antichi e forti legami, in primis con San Pietroburgo, la sua splendida, dotta e algida città. Era profondamente legato ad essa, a come gliel’avevano narrata, a come l’aveva conosciuta da bambino. Nonostante il vento della rivoluzione, continuò a chiamare quei luoghi con i loro vecchi nomi, quelli raccolti dai genitori e dai primi maestri. Così via Marat, dove abitava, rimase per lui via Nikolas e il Teatro Malyj fu sempre Michajlovskij. Quello stretto e viscerale rapporto con i vicoli, le strade, i sottoscala, i canali e le lunghe prospettive, con quella che considerava l’anima pulsante della città si rivelò fondamentale. Lo salvò, infatti, dalle purghe staliniane e ne fece, al contempo, un padre della patria. Lo risollevò da tutti i suoi momenti difficili. Soprattutto, lo costrinse a piegare tutta quella forza ideale e quella tensione nella partitura del suo massimo capolavoro, di quella straordinaria Settima Sinfonia che passò alla storia come la Sinfonia di Leningrado.

L’assedio

Nel 1942 Leningrado, già sfibrata dalle purghe del regime, deve affrontare uno dei più duri assedi della storia. Le armate tedesche la accerchiano, chiudendone gli accessi, sin dal settembre del 1941 con l’ordine di conquistarla e raderla al suolo, ma la città ed i suoi residenti resistono ad oltranza per novecento giorni senza rifornimenti, tra stenti indicibili e pesanti sacrifici umani. In quei primissimi mesi di isolamento Šostakovič è al lavoro. Sta completando la sua Opera 60 e man mano che procede nella scrittura lunghe ombre si addensano all’orizzonte. Quell’opera è destinata a diventare un simbolo, la “vittoria della luce sull’oscurità, dell’umanità sulla barbarie”. Dmitrij Dmitrievič è tragicamente sospeso. Lui, l’uomo delle sfumature e del grottesco, mai avrebbe immaginato di assurgere ad eroe della resistenza solo con una matita e lo spartito. Mai avrebbe pensato di diventarlo con la sua opera musicale più complessa e sofisticata.

Un avventuroso viaggio di andata e ritorno

Una cosa è certa: prima di lui nessuno ha mai scritto una sinfonia del genere sotto il fragore delle bombe. E’ una partitura lunga, estesa e impegnativa che necessita di un’orchestra al completo. Šostakovič lavora giorno e notte, con grande intensità e concentrazione. Dmitrij Dmitrievič rimane seduto alla scrivania per ore, con la figlia Galia in braccio: una mano impugna nervosamente la matita, mentre l’altra si muove come se si trovasse sui tasti del pianoforte. Šostakovič non suona, non ce n’è bisogno. La musica si agita dentro di lui. Dmitrij Dmitrievič deve solo trascriverla. Gli unici conforti sono le sigarette e l’alcol, che non manca mai e che filtra il clamore dei combattimenti come la pressione dei burocrati. In quelle precarie condizioni Šostakovič riesce incredibilmente a completare il lavoro e ne riproduce la partitura in un microfilm che raggiunge, con un periglioso viaggio, prima Londra e poi New York. Toscanini è il primo a suonarla. Il maestro italiano rimane a bocca aperta. Quella musica di grandissimo impatto possiede qualcosa di magico, un intimo potere evocativo che la rende diversa da tutto il resto e che la fa suonare tragica, solenne ma anche forte e vigorosa. Forse l’idea nasce così, sull’onda di quelle prime concitate recensioni. La linea diretta tra gli Stati Maggiori alleati si scalda rapidamente. La decisione è presa da Stalin in persona, anche su sollecitazione degli altri governi. Quella diventa una vicenda squisitamente simbolica. Quella sinfonia va eseguita a Leningrado, sotto le bombe, costi quel che costi. E allora la partitura fa il suo leggendario viaggio a ritroso e da New York riapproda avventurosamente sulla Neva. La affidano a Karl Eliasberg, l’unico ancora disponibile in città, l’unico ancora in grado di reggersi in piedi. Il direttore la ricopia a mano, di suo pugno. Ne fa centoventi esemplari da distribuire agli orchestrali. Già, ma quale orchestra? Quella della Filarmonica non esiste più. Molti sono scomparsi, altri sono deceduti, altri imprigionati dal regime. Trovare le persone giuste per ricostituire un’orchestra in quelle condizioni è un’opera titanica, lenta e certosina. E, poi, rimangono da organizzare le prove, che, per la cronica assenza di energia e il perenne coprifuoco, non dureranno mai più di un quarto d’ora alla volta. Uno sorta di stillicidio sonoro.

Un lungo e commosso applauso

Alla fine, però, la determinazione ha ragione di tutto, di ogni riserva e di tutte le difficoltà pratiche, e la mattina del 9 agosto 1942, nonostante un incessante bombardamento, la Filarmonica di Leningrado riapre i battenti riempiendosi in ogni ordine di posti. Sul palco sale un gracile e incerto Eliasberg. Due parole di rito e poi la bacchetta si abbassa per l’atteso segnale. L’Opera 60 in do maggiore si apre solenne con il primo grave movimento, il tema dell’invasione. Il pubblico si lascia rapire dai suoni in un assorto e religioso silenzio che durerà sino al termine dell’esecuzione, sino all’ultimo vibrare di corde. Poi esploderà in un lungo e commosso applauso. Quell’applauso non premia solo quell’incredibile e orgogliosa forza d’animo, quella musica ispirata, la bravura degli orchestrali o la grande abilità di Eliasberg. Quel lungo e liberatorio applauso è soprattutto per il Maestro, per Dmitrij Dmitrievič e la sua lucida ostinazione, la stessa che permetterà a quella platea e ad un paio di milioni di altri concittadini di trovare la forza per sopravvivere in quelle atroci condizioni. Trentatre anni dopo, all’alba di un altro 9 agosto, Šostakovič si congederà definitivamente dal suo pubblico, rimanendo per sempre nella storia della sua città. Con tutta probabilità, l’eco di quell’accorato applauso lo avrà accompagnato anche lungo quell’ultimo viaggio.