Once in a lifetime: Lester Young

Il 27 agosto 1909 nasce a Woodville, Mississippi, Lester Willis Young, di professione sassofonista. Billie Holiday lo chiamava “The Prez”, Il Presidente, per via di quell’inimitabile stile traverso e, soprattutto, per l’esuberante personalità. Gli altri suonavano, gonfiavano i polmoni e soffiavano nelle ance facendo vibrare l’aria e magari pure anche i bicchieri. Qualcuno di loro lasciava filtrare qualcosa, come se da quella nebbia di sguardi si intravvedesse una dimensione inedita e affascinante, un mondo diverso. I più bravi ti portavano pure via per qualche istante, giusto il tempo di un pensiero o anche solo per il fiato di un sospiro. Ma Lester era diverso. Lui apparteneva ad un altro universo. Era fatto di un’altra pasta. Al loro cospetto era come se facesse un mestiere diverso, quello dell’incantatore di anime o serpenti, non quello del musicista. Perché lui non suonava, apriva i cuori piuttosto. Rapiva come il tiepido abbraccio del primo raggio di sole. Prendeva per mano e trasportava altrove le ansie e le angosce, non già per lo stretto tempo di una scala o qualche suo straordinario “solo”, ma anche per tutto quello che sarebbe servito per sentirsi finalmente parte del mondo e delle sue fantastiche bellezze. “Prez” non era solo sudore ed emozioni. “Prez” era la musica jazz al suo massimo apice. Era il Presidente della bellezza.

A Musical Romance

Quella con Billie non fu propriamente una storia, come insinuarono i cronisti. Non aveva niente di materiale o di fisico: non era il frutto di un dolce stordimento né tanto meno il fugace vezzo di una questione di sangue o sudore. Quella coppia non era l’effimero viaggio di una sola notte. Lì, in quel mistero, non c’erano biglietti di andata o ritorno. Quella strana relazione era fitta e stretta come le trame di un tessuto, di un velluto purpureo di gran classe. Si agitava al calare delle prime ombre e respirava l’umido umore dell’alba, aveva il sapore agrodolce del successo e delle sbronze, degli eccessi e degli applausi. Quella complice intesa possedeva quel magico e raro brivido che trasforma una combinazione di note e accenti in una costruzione che sfida il tempo e gli anni. Quella profonda affinità li avrebbe condotti su strade parallele, tra ascese e cadute, sino al medesimo drammatico epilogo. La vita li avrebbe lasciati andare, l’una dopo l’altro, a distanza di pochi mesi. Quella loro esistenza non avrebbe conosciuto riscatto o un finale consolatorio. Quella vita l’avrebbero sprecata, bevuta e consumata tutta d’un fiato, come solevano fare le persone speciali, quelle che avevano tante cose da dire e da fare, quelle stesse che dovevano fare i conti con abissi e voragini che non volevano chiudersi né con lacrime né con abbracci. Quell’enorme vuoto lo avrebbero riempito alla loro maniera, con un sax o una voce, lo avrebbero esorcizzato e sfidato tra provini e ingaggi, tra cutting contest e chorus, tra big bands e topaie, tra sogni di gloria ed un intricato apparato di eccentriche tristezze.

Vertigine e precipizio

Come in Billie, anche in “Prez” pulsava la magica aura degli irregolari. Era cresciuto sulla strada, ne aveva schivato asprezze e insidie, tra buche e ombre. Con quel carattere, se fosse rimasto a governare affari agli angoli dei bar con la vita ci avrebbe fatto a pugni e magari sarebbe finita ai punti, tra bische e penitenziari. Ma il destino aveva altro in serbo per lui. Perché Lester, a quel richiamo, a quella solida presa, sarebbe riuscito a sottrarsi grazie alla musica e al ritmo, grazie a suo padre e alla sua piccola orchestra. Dai tamburi degli esordi era rapidamente passato ai tasti e alle chiavi di un contralto e, quindi, di un tenore. In quello strumento aveva trovato la sua vera dimensione. Il sax era come una parete verticale, alta, liscia ed aspra. Lester si trovava a proprio agio con le salite e le discese. Sembrava trovare pace nella vertigine e nel precipizio. “Prez” arrampicava, apriva nuove vie, come un provetto scalatore, salendo con calma e precisione, presa dopo presa, appoggiando il fiato ad ogni nota, concatenando e intrecciando frasi e ripetizioni, come un suadente bolero, un moto perpetuo, infinito e ipnotico, caldo e avvolgente. Poi si mise pure in testa di provare a suonare come faceva Trumbauer, cercando di replicare le sue sonorità. Peccato solo che tra i loro strumenti ci fosse un tono a fare la differenza. Ne venne così fuori qualcosa di strano, nuovo e rivoluzionario, qualcosa mai sentito prima. Lester aveva trovato la strada, il suo modo per fare parte della storia.

Dal Midwest alla Cinquantaduesima Strada

Fu proprio quello strano stile, quel tocco leggero e invitante a portarlo in giro per tutti gli States aprendogli le porte di decine di orchestre lungo tutto il Midwest. Lester macinò chilometri e polvere sino alle grandi città dell’est, sino alle luci rassicuranti di New York, di Harlem e di Manhattan, della Cinquantaduesima strada, del Cotton Club e del Birdland. Quel modo di suonare caldo e intenso gli fece condividere il palco con tutti i più grandi, da Count Basie a Fletcher Henderson, da Oscar Peterson sino a Miles Davis e Buddy Powell. Poi le ombre su cui aveva scommesso e che sin lì aveva arginato ripresero quota e cominciarono ad imprigionarlo in una stravagante epifania di episodi schizofrenici, di inquietanti diagnosi di sindromi bipolari, di stranezze, visioni, eccessi, droghe, alcol, cappelli, cappotti e sax inclinati. Quelle ombre che salivano da dentro e che lo avevano sempre accompagnato se lo ripresero, lo rubarono al pubblico e al futuro consegnandolo alla storia, facendo infine calare il sipario su tutte le straordinarie e brillanti fragilità. Lester provò anche a fronteggiarle con quello che aveva a portata di mano, con il suo sax, l’alcol e poco altro. Gli ultimi tempi sapevano di fatale declino e abbandono. Il 15 marzo 1959 si consegnò per l’ultima volta alla malinconia della sua vertigine, sistemò delicatamente il sax sulla sedia della sua stanza e chiuse gli occhi per non riaprirli mai più. Non aveva compiuto nemmeno cinquant’anni, la solita maledizione dei musicisti. Solo quattro mesi più tardi Billie, che invano aveva tentato di cantare al suo funerale, lo andrà a cercare in quel profondo buio.