Once in a lifetime: Phil Hill

Il 28 agosto 2008 muore a Salinas, California, Philip Toll Hill Jr., al secolo semplicemente Phil Hill, pilota di professione. Il suo nome rappresenta l’età d’oro delle corse automobilistiche. Protagonista di maratone polverose e massacranti, testimonial di tante imprese sportive come pure di molti drammi e lutti, Hill ha visto scorrere, tra l’asfalto ed i suoi occhialoni, le stagioni più esaltanti delle corse. Nel bianco avorio del suo casco si sono specchiate centinaia di vite sospese, tragiche e fragili. Molte di queste sono fatalmente rimaste sui tracciati di gara, agli angoli ciechi delle curve o tra gli alberi delle chicane. Ciò nonostante Phil non si è mai guardato indietro. Ha lasciato che fossero gli altri a farlo, quelli che lo seguivano da vicino e che, giro dopo giro, perdevano contatto e terreno annichiliti dalla potenza e dai problemi. Phil non si girò mai, quasi sapesse che tra quelle scie di gomma bruciata si sarebbe consumata l’ansia di un’intera generazione, l’idea stessa di futuro e l’aereo profumo di promesse destinate ad essere tradite.

Una questione di assetti, molle e volumi
Phil era un pilota attento e scrupoloso. Amava i motori e ogni genere di meccanismo. Apparteneva a quella ristretta cerchia di talenti che erano cresciuti facendo notte in officina, smontando e rimontando ogni singola parte delle vetture, studiando assetti, molle, flussi e persino i volumi di camere a scoppio e pistoni. Quella generazione aveva preso in mano il volante solo dopo aver mandato a memoria ogni singolo particolare tecnico dei propri mezzi. Quei piloti raramente si fidavano dei meccanici. Anzi, si vantavano pure di non averne bisogno, perché ogni volta che rientravano sgommando ai box sapevano esattamente dove si sarebbe dovuto infilare le mani e le chiavi. Era una sorta di rapporto simbiotico. Molti di quei piloti nemmeno permettevano che ci si avvicinasse ai loro bolidi, tanto era stretta quella folle e razionale relazione.

How it works
Phil voleva sempre sapere come funzionavano le cose. Studiava ogni manufatto e si lasciava docilmente ossessionare dai materiali e dalle parti meccaniche. Non si accontentava mai dei manuali, perché voleva vedere di persona com’erano fatte, voleva comprendere com’erano state progettate, con quali tecniche o strutture. Questo valeva non solo per le automobili che pilotava ma anche per ogni marchingegno abitasse la sua casa, dal frullatore all’aspirapolvere. Phil era un affezionato cultore della fisica e delle sue leggi. Aveva compreso per tempo che la velocità non è solo frutto di un temerario azzardo, quanto piuttosto un’intrigante e precaria faccenda, il risultato di una complessa teoria di cause ed effetti, di forze e leve, di pesi e contrappesi. Tenere l’anteriore di una monoposto incollato alla corda di una variante, senza perdere mai l’aderenza e la traiettoria migliore, era infatti, al contempo, circostanza immateriale e fisica, un fascinoso turbine di angoli, muscoli, intuito e intelligenza. Di questa, Phil ne era abbondantemente dotato.

Da collaudatore a pilota
Aveva cominciato a correre per testare le vetture. Dopo le prime corse su vetture a ruote coperte, la Jaguar lo porta in Inghilterra ingaggiandolo per collaudare le monoposto. Phil si rivela un affidabile mago della messa a punto. In pista nulla sfugge ai suoi sensi ed il suo operato si rivela determinante per la factory britannica. Ma Phil sa anche andare veloce. Nel 1954 partecipa alla massacrante Carrera Panamericana a bordo di una Ferrari 375 Vignale. E’ una dura ed insana battaglia di circa 3000 chilometri con la polvere degli sterrati, i sassi, il fango e il sole. Alla fine Hill e Ginther riescono a domare gli elementi e si presentano a Ciudad Juarez in seconda posizione assoluta dietro la Ferrari del leggendario Maglioli. Quella serena determinazione unitamente alle sue speciali attitudini ed al suo piede pesante gli aprirono i cancelli di Maranello.

L’avventura in rosso

Con il Drake il rapporto decollò sin da subito e il Commendatore, notoriamente riluttante quando di mezzo c’erano i piloti e le loro incomprensibili isterie, prese subito a fidarsi di quello strano americano volante, veloce e metodico, sobriamente burlone ma anche serio e riservato. I risultati non tardarono. Nelle sue prime stagioni Phil finisce spesso sul podio e nel 1960 corona il sogno della prima vittoria nella gara più amata, quella più difficile, attesa e speciale, il Gran Premio d’Italia a Monza. Fu solo il prologo di un’esaltante ciclo. Il 1961 fu infatti il suo anno più grande, quello in cui Hill si aggiudica sia il titolo mondiale di Formula 1, al volante della Ferrari 156 F1, che la prestigiosa 24 Ore di Le Mans. Poi anche le sue traiettorie cominceranno fatalmente a virare verso il basso. Phil continuerà a correre nella massima formula sino al 1966, poi tornò a quelle minori rimanendo comunque nel giro, seppur in posizione defilata.

“Faccio un lavoro strano, forse sbagliato”

In carriera Phil ha vinto moltissime gare, condannando spesso alla scia amici e celebri colleghi come Gendebien, Von Trips, Musso e Collins, sempre con grande stile, severa eleganza e formidabile spirito. Furono battaglie vere e vibranti, combattute sino all’ultima staccata. Furono podi brillanti, allori sudati e gioie autentiche. Poi su quelle lingue d’asfalto spuntarono anche le ombre delle tragedie che si allungarono sino a portarsi via quasi tutti i suoi maggiori avversari. Un doloroso stillicidio, una strage lenta e atroce che però lo risparmiò. La morte che lo aveva spesso sfiorato in pista lo colse, infatti, ormai ottantenne tra le corsie di un ospedale, dove da tempo era ricoverato. Quando infine giunse il suo momento non fu la malattia né il distacco a rammaricarlo, quanto piuttosto invece quella dannata lontananza da box e officine, da quel magico perimetro che gli aveva regalato un sogno.
“Faccio un lavoro strano, forse sbagliato. Perché in realtà non voglio battere nessuno né tantomeno diventare l’eroe di nessuno. Sono solo un uomo pacifico che vuole correre. Solo per il gusto e la passione di farlo”.