Once in a lifetime: Franco Bitossi

Il 1 settembre 1940 nasce a Carmignano, in provincia di Prato, Franco Bitossi, di professione ciclista. Nella vita come in bicicletta non sempre tutto torna. In questo nostro strano viaggio nulla è mai scontato, né le pendenze né le discese, né le curve né tanto meno le volate. Le due ruote reclamano sempre intensità e concentrazione. Pretendono spirito di sacrificio e adattamento, coraggio e determinazione. Come in una lunga corsa a tappe, in una massacrante “Sei giorni” o in una classica, tutto si brucia sempre sul filo dei secondi, in favore o sfavore di vento. Tutto finisce sempre in una manciata di effimeri secondi, in quell’ultimo fatidico giro di pedale, quando ormai il traguardo ti sfida dal fondo del rettilineo, quando ti sei lasciato alle spalle ogni peso ed ogni tattica come pure ogni paura. Il ciclismo non ammette né concede tregua alcuna. Oltre a buoni polmoni e a muscoli potenti, servono anche nervi d’acciaio, astuzia, sangue freddo e un pizzico di sorte bastarda, propria quella che voltò le spalle a Bitossi sul più bello, nel momento cruciale, in quei maledetti ultimi cinque metri di un Campionato del Mondo.

“Cuore matto”

Lo chiamavano “cuore matto”, ma non per via del carattere o di qualche imprevedibile bizza umorale. Quel soprannome glielo avevano appiccicato per il cuore, perché quel  suo muscolo d’atleta ogni tanto decideva di fare di testa sua, di cambiare ritmo accelerando all’impazzata e pompando sangue nelle vene sino a sfiancarlo. Franco era un’autentica promessa. Con Gimondi rappresentava il meglio del pedale italico. Perché Bitossi, in un mondo di grimpeur, passisti e sprinter, aveva un enorme vantaggio: andava fortissimo ovunque, in salita come in pista, sulle pendenze come in linea. A quei tempi faceva eccezione. Bitossi apparteneva a un clan di eletti, di grandi campioni destinati a lasciare il segno. Ma quel suo difetto lo aveva fatto vacillare, aveva minato forza e sicurezza, aveva riempito pagine di quotidiani. Qualcuno si era anche spinto oltre sino ad azzardare la prematura fine della sua carriera. Le sue erano crisi improvvise, scalini vertiginosi che lo costringevano a fermarsi ai bordi della carreggiata ad attendere che tutta quella furia trovasse infine pace e regolarità. La prima volta quella tachicardia vigliacca gli era piombata addosso nel bel mezzo del “Giro di Toscana” del 1964 e lo aveva costretto al ritiro. Quella cosa era tornata fuori ancora e a più riprese. Due anni più tardi lo fermò alla “Coppa Agostoni” e, quindi, al “Giro di Lombardia”. Bitossi pensa di prendersi una pausa, è spaventato e demoralizzato. L’idea del ritiro lo sfiora, ma l’affetto dei suoi familiari e una profonda e serena determinazione lo spingono avanti, gli impongono di provarci ancora. Così Franco si abitua a controllare quell’improvvisa eruzione, a dargli del tu, ad anticiparne i moti e ad indagarne i risvolti. Bitossi addomestica quella tensione e l’anno successivo, nel 1967, si prende la rivincita più bella salendo sul gradino più alto del podio in molte classiche, tra cui anche l'”Agostoni” e il “Lombardia”. Bitossi continuerà a correre come e più di prima, aggiudicandosi qualcosa come 171 corse, tra grandi classiche, tappe del  Giro d’Italia e della Grande Boucle, di cui ebbe anche il privilegio di indossare la prestigiosa “maglia verde”. A quella straordinaria galleria di trofei ne mancherà uno solo, quello più prestigioso, quello di Campione del Mondo. Gli verrà a mancare per un crudele gioco di sguardi, per una folata di vento ed un capriccio della sorte.

Il trofeo più ambito

Domenica 6 agosto 1972 sul duro circuito di Gap, in Francia, va in scena l’attesa gara che assegnerà il titolo iridato. A contenderselo un folto numero di grandi protagonisti. Il percorso è difficile ed estremamente selettivo: diciotto lunghi giri assegneranno il trofeo più ambito. A quattro dalla fine l’equilibrio viene spezzato dalla fuga di un nutrito gruppo che finisce per assottigliarsi sino a pochi chilometri dal traguardo. A giocarsi il titolo rimangono in sette: il “Cannibale” Eddy Merckx, Cyrille Gui­mard, Joop Zoetemelk, Leif Mortensen e tre italiani, Bitossi, Basso e Dan­celli. Franco sta bene, ha gamba e riflessi. Vede il traguardo, pensa veloce e intuisce che è giunta la sua occasione. Scala la marcia, si alza di scatto sui pedali e lascia andare tutta la potenza e la rabbia che ha ancora in corpo. Bitossi va via di forza approfittando di un attimo di indecisione degli avversari. Si alza e taglia il vento. Guadagna metri e fiducia. Dietro provano a rincorrere. Si alzano anche Merckx e Zoetemelk, trascinandosi in scia tutti gli altri. Tentano di prenderlo, ma Franco resiste. Siamo ormai a soli cinquecento metri. Bitossi va sulla destra, cerca fluidità e giri ma tutto sembra complicarsi. Le forze sembrano abbandonarlo sul più bello, ormai in vista dello striscione, alla fine di una leggera e infida pendenza. Si gira per vedere cosa succede alle sue spalle, ma in quel tumulto non avverte il dramma che sta incombendo.

“Bitossi, Bitossi, Bitossi”

Tutto si decide in pochi metri d’asfalto, sul filo di pochi secondi. Anziché continuare a spingere su manubrio e pedali, Bitossi cerca nervosamente conferme, vuole vedere in faccia il destino. Si gira ancora, una volta di troppo, cercando qualche conferma. Ma quell’incertezza rompe definitivamente il ritmo e lì dietro finisce solo per trovare le ruote aggressive di Merckx, di Guimard e di Basso che sembrano volare e sono ormai attaccati al suo cerchio posteriore. E’ solo un fatale attimo. Bitossi marca stretto il belga e il francese. Non pensa però al suo compagno di squadra da cui certo non si attende l’attacco. Purtroppo invece vi farà i conti quando sarà ormai troppo tardi, quando si troverà a soli cinque metri dal traguardo. Ne scorgerà l’ombra e lo vedrà sfilare via al rallentatore, fotogramma per fotogramma, con beffarda malignità. De Zan urla il suo nome alla televisione. Lo scandisce ritmicamente come fosse un mantra propiziatorio. “Bitossi, Bitossi, Bitossi”. Con De Zan è l’Italia intera a chiamarlo e a spingerlo oltre quella maledetta linea bianca che non arriva più. Ma a tagliare per primo il traguardo è Marino Basso. L’Italia incredula sobbalza sulla sedia. Quella del 6 agosto 1972 rimarrà una domenica ben strana e speciale per tutti quelli della mia generazione. Alla fine quel titolo mondiale lo vince un italiano ma tutto il mondo del ciclismo si inchina alla compostezza del silenzioso pianto dello sconfitto. Franco Bitossi entra così nei cuori degli appassionati. Passerà alla storia delle due ruote come il campione che si arrese a soli cinque metri dalla gloria.