Once in a lifetime: Bill Shankly

Il 2 settembre 1913 nasce a Glenbuck, in Scozia, al confine tra Ayrshire e Lanarkshire, William Shankly, di professione calciatore e allenatore. Le origini del calcio sono profonde come radici. A cavallo tra le due Guerre Mondiali il football conobbe la gloria di un crescente interesse, ma ciò nonostante rimase uno sport povero, fatto di polvere e terra, una sorta di faticoso e necessario rito collettivo. Finì così per coincidere con le pause lavorative e il meritato riposo del sabato pomeriggio dando appuntamento a migliaia di persone in ampi catini scavati negli immediati dintorni di fucine e ciminiere, fabbriche e cantieri. Il pallone divenne l’agognato svago da massacranti turni di lavoro, l’evasione atletica dal paradigma fordista, l’inversione di tendenza, il baricentro sociale di un’intera generazione di giovani operai. Non fu quindi un caso se i massimi protagonisti di quella stagione provenissero da umili natali e da insediamenti produttivi. Come Matt Busby e Jock Stein, anche Bill era nato in un villaggio di miniera ed era cresciuto spazzando via la polvere dalla tavola e dai piatti. Non era solo una vicenda di natura geografica, ma piuttosto la conferma di un comune codice genetico e di una grammatica fatta di duro lavoro, impegno, solidarietà e rispetto.

Dalla miniera ai campi da gioco
Per i Shankly il calcio è un’irresistibile attrazione. Tutti i suoi quattro fratelli, come tutti i suoi zii, giocano a pallone. Il giovane Bill ha buone gambe, grandi polmoni ed una buona padronanza tecnica. A tutto questo, però, Bill aggiunge una dote speciale che ha a che fare con lo spogliatoio più che con il terreno di gioco. William ha infatti la grande capacità di stabilire relazioni estremamente empatiche. Ascolta i compagni e li guida. E’ ben più di un capitano: è un vero leader, un eccezionale motivatore e un saldo riferimento. E’ grazie a queste attitudini che fa rapidamente strada. Dai dilettanti del Glenbuck Cherrypickers al Carlisle United il passo è breve. Il calcio che conta lo conosce però quando indossa la prestigiosa maglia del Preston North End, con il quale conquista il trofeo più ambito, la Coppa d’Inghilterra del 1938. Poi, purtroppo, arriva la guerra a portarsi via amici, aspettative e gli anni più belli. Bill però non riesce a rimanere lontano dai campi. Ama troppo quello sport e quella potente alchimia di prassi e pensiero, di forza e intuizione. In campo gioca come un allenatore. Il ruolo di mediano gli regala le chiavi delle segrete stanze e gli svela gli incastri, le dinamiche e gli automatismi di gioco. In campo è il primo a chiamare le tattiche ed a spronare gli uomini. Il suo futuro è la panchina, su cui infatti si accomoda per la prima volta nel 1949, all’indomani della chiusura della carriera attiva. Ad affidargli la guida della prima squadra è il Carlisle. Bill fa esperienze preziose, studia e applica le sue teorie. A seguire c’è spazio per Grimsby e Huddersfield, due piazze complesse. Poi, quando meno se l’aspetta, la storia bussa finalmente alla sua porta. Lo chiama il Liverpool.

“You’ll Never Walk Alone”

Bill reinventa una squadra e coglie risultati impensabili. Nei primi cinque magici anni della sua gestione, la squadra del Mersey passa da un’anonima Second Division alle vette della massima divisione lottando e conquistando il titolo nazionale. L’impatto di Bill è sensazionale. Shankly strega letteralmente l’ambiente grazie ad una calibrata miscela di quieta rivoluzione, incontenibile passione, idee innovative e tradizione, mettendo d’accordo tutti, board, critici e pubblico. Rivitalizza il vivaio, torna a dare massima fiducia alle nuove leve e investe in una nuova cultura organizzativa. In campo Bill adotta un gioco intenso, aggressivo e veloce, facendone l’inconfondibile marchio di fabbrica del club. Grazie a quel suo modo totale di intendere il football restituisce l’anima ad una maglia e ad una curva, la Kop, disperatamente a caccia di sogni e identità. Shankly fu determinante anche in questo. E’ merito suo se “You’ll Never Walk Alone” da romantico hit-single di Gerry and The Pacemaker si trasforma nell’inno ufficiale di Anfield. Quel testo faceva proprio al caso suo: era una sorta di manifesto d’intenti, una dichiarazione d’amore, un modo per segnare il terreno chiarendo, una volta per tutte, che per arrivare a determinati risultati serviva uno spirito comune e collettivo e che nessuno lì sarebbe rimasto indietro. Era un suo pallino, un tormentone. Decise così di farla suonare dagli altoparlanti ogni sabato pomeriggio prima che i giocatori toccassero l’erba del campo. Il pubblico gradì ed il resto lo fece la storia.

Pane e lavoro

Con la Kop Bill mantenne sempre un rapporto unico e speciale, certamente figlio delle sue umili origini. Perché Bill non amava le speculazioni e le esibizioni, perché negli spogliatoi parlava di impegno e salario, di pane e lavoro, perché, ad ogni match come ad ogni allenamento, ricordava sempre ai suoi ragazzi da dove erano venuti e quale fosse il peso della responsabilità che si assumevano ogni volta che indossavano quella maglia e quei colori. Si ritirò all’improvviso il 12 luglio 1974. Si fece da parte, in punta di piedi, con rispetto e orgoglio, all’apice della grandezza e della fama, qualche settimana dopo aver conquistato la F.A. Cup. Aveva capito che non ci sarebbe stato momento migliore per chiudere i conti. Le cose avrebbero preso il loro corso, la carreggiata era ben sgombra e il sole avrebbe indicato la via alla generazione di preparati tecnici che lo avevano sin lì seguito. Prese definitivo congedo solo qualche anno più tardi, per un infarto, ma il suo spirito, di tanto in tanto, continua a percorrere le scalette di Anfield sbalordito da cosa è diventato il suo football. Ciò nonostante, rimane ancora lì, attaccato a quell’ultimo scalino, pronto a spingere in avanti i suoi ragazzi, oltre la metà campo avversaria, come fosse la prima o forse l’ultima volta.

“Sono stato il miglior tecnico nel gioco e avrei dovuto vincere di più. Non ho mai preso nessuno in giro. Combatterei contro di te, e spaccherei una gamba pure a mia moglie se giocassi contro di lei, ma non la tradirei mai.”