Once in a lifetime: Eduardo Galeano

Il 3 settembre nasce a Montevideo Eduardo Hughes Galeano, di professione giornalista, saggista e scrittore. La sua esistenza Eduardo l’ha interamente dedicata a raccontare quelle degli altri, ad osservarne le critiche condizioni ed a capire quali, invece, avrebbero dovuto e potuto essere. La vita ci pone spesso di fronte a scelte radicali. A dispetto di quanto crediamo, sono quasi sempre scelte naturali, di pancia e irrazionali, che hanno a che fare con le emozioni e con quella misconosciuta parte senziente di noi che chiamiamo sentimenti e che spesso ispira e suggerisce ogni nostra azione. Ci sono momenti in cui la storia non ammette sfumature o incertezze. Ci obbliga semplicemente a scegliere da che parte stare. Fuori o dentro, di qua o di là. Galeano il suo posto nel mondo lo trovò naturalmente senza dubbi o patemi, tracciando difficoltosamente la rotta in anni bui e difficili per le giovani democrazie sudamericane, in anni di golpe, violenze, assassini, dittature e repressioni.

 Dalla parte dei più deboli

Galeano scelse di stare dalla parte di chi non aveva mai avuto parola e, certo, non si sarebbe potuto difendere, della povera gente, degli ultimi e dei reietti, di quelli che incrociavano nell’immensità delle campagne e delle pampas, degli indios e dei contadini. Eduardo raccontò il mondo attraverso i loro occhi e quel senso di tragica fatalità e cercò di riscattarne le paure. Fu lì, tra quei sentieri, tra le strade infangate ed in quei solchi di dolore, che la sua narrazione trovò una straordinaria forza morale. Galeano comprese, infatti, che proprio lì si sarebbero giocati i destini di un intero continente. In quel cammino lungo i nervi dell’America andò incontro alla gente, ai poveri e ai soldati, agli artisti e agli intellettuali, persino agli uomini di fede e ai guerriglieri, componendo una preziosa mappa fatta di tante piccole quotidianità, di dolore e speranza. Da quel lungo viaggio nacque “Le vene aperte del Sud America” che divenne una sorta di diario di bordo tra i più acuti, accorati ed attenti. Quel librò segnò un’epoca, innescando un acceso dibattito ed esponendolo agli strali di chi non voleva riflettere o cercava scorciatoie, di dittatori e terroristi.  Braccato e in fuga, Eduardo non smise mai di ascoltare, ragionare e discutere con passione e coraggio, anche quello di cambiare idea tenendosi sempre lontano da faziosità e logiche di schieramento. Perché, poi, quando infine passa la tempesta, giunge  il momento di spiegare le vele e di andare a cercare il vento. E’ il mestiere del navigante, è la cronaca della nostra esistenza e delle sue alterne stagioni, delle tappe di un percorso che ci spinge a crescere nel pieno rispetto di tutte le nostre legittime idealità, inclinazioni e aspettative.

Un pensiero ostinatamente contrario

Galeano fu un figlio prediletto della sua terra. La onorò fino in fondo con l’estrema libertà delle sue opinioni, con la passione delle vibranti denunce sociali, la lucidità della penna e un pensiero ostinatamente contrario a quello dominante e omologato. Di quel bistrattato continente raccontò le malefatte della politica e le laceranti contraddizioni, facendo i conti con drammi e gioie, pulsioni e derive, sogni e speranze, ascese e cadute. Nonostante lo slancio, Galeano dovette attrezzarsi per sopravvivere a un’infinita teoria di fughe e stenti, all’esilio fisico e a quello intellettuale, al senso di estraneità, alla disillusione e al tempo che scivolava via inesorabile tra le righe delle sue pagine. Gli toccò anche parare critiche e infarti, come fosse un vero numero uno. Con il passare degli anni divenne un riferimento, una delle anime critiche più autorevoli della letteratura sudamericana, un originale saggista, un testimone ironico e poetico che non ha mai smesso di fare domande come di darsi risposte e che, come i più grandi, è ritornato sui suoi passi per stracciare alcune delle pagine più acclamate, tenendo così a distanza i fantasmi di spietati demagoghi e dei soliti “cattivi maestri”. Quella sua sensibilità lo guidò tra mari e fiumi, foreste e cordigliere alla ricerca di storie e racconti di fantasia e innocenza, arte e religione. Fu per via di quello spirito che Eduardo finì per occuparsi anche di calcio, alle cui quotidiane e ordinarie miserie dedicò uno dei più ispirati e lucidi libri di sempre. Tra le sue virgole il football rimase una potente e straordinaria metafora di vita, perché è proprio nella sospesa brezza del dribbling che si celano le curve della ragione e tutto il malinconico inganno della modernità.  Nel bel mezzo di un’area di rigore come su una scrivania impolverata, quella sua penna continuò brillantemente a tracciare un solco netto tra bellezza e cinismo, spalti e salotto, impegno ed opportunismo, allegria e rassegnata cupezza. Se n’è andato solo qualche mese fa, il 13 aprile di quest’anno, lasciando un vuoto pressochè incolmabile.

“L’inventario del mondo era incompiuto, era fatto di rottami, vetri rotti, scope calve, ciabattine camminate, bottiglie bevute, lenzuola dormite, ruote viaggiate, vele navigate, bandiere vinte, lettere lette, parole dimenticate e acque piovute. Arthur aveva lavorato con la spazzatura. Perché la vita vissuta era tutta spazzatura, e dalla spazzatura veniva tutto quel che nel mondo c’era o c’era stato. Niente di intatto meritava di figurarci. Le cose intatte erano morte senza nascere. La vita pulsava solo in ciò che aveva cicatrici.”