Once in a lifetime: Bob Lanier

Il 10 settembre 1948 nasce a Buffalo Robert Jerry “Bob” Lanier jr., di professione cestista e allenatore di pallacanestro. Il suo nome evoca le memorabili stagioni degli anni settanta, quelle dei grandi scontri, delle meraviglie aeree e delle rare immagini in bianco e nero che filtravano a tarda ora su qualche canale clandestino. In quegli anni il basket italiano era prigioniero di piccole e ristrette finestre televisive. Anche quello del massimo campionato italiano stentava a ricavarsi un dignitoso sipario e veniva spesso concentrato in pochi minuti e condannato alla famigerata seconda parte della “Domenica Sportiva”, quella che sfondava il tetto della mezzanotte, se non, addirittura, declassato alla striscia pomeridiana dell’indomani pomeriggio. Quel basket era quello dei più grandi, di Brumatti, Marzorati, Morse e Meneghin, della Simmenthal dalle scarpette rosse, della Ignis Varese e della Forst Cantù: tempi eroici, declinati in tante sgranate sfumature di grigio.

L’America, un’altra cosa.

L’America, però, era un’altra cosa. Agli occhi di noi bambini non era solo una questione geografica, non c’erano solo migliaia di chilometri d’acqua di mezzo: quello era proprio un altro pianeta. A dividerci da quei magici tabelloni e da quelle platee luccicanti c’erano tempi, sogni e incanti. Fu solo alla fine degli anni settanta, sull’onda dell’esplosione delle emittenti private, che il basket dei campioni cominciò lentamente a trovare spazio anche sul televisore di casa per presentarsi in tutto il suo splendore. Fu in quel periodo che molti miei coetanei presero confidenza con squadre, colori e nomi che erano, sin lì, rimasti solo nella leggenda. Quello del sabato pomeriggio era un mondo incredibile, veloce e intenso, fatto di imprese e campioni, di giocatori vertiginosi e magie balistiche. Quel basket parlava una lingua diversa, si votava allo spettacolo, regalava tattiche azzardate, letture veloci e passaggi acrobatici. Fu così che un pezzo d’Italia si innamorò di tutte quelle leggende.

Una colonna.

Bob era certamente una di queste, uno dei grandi veterani, una colonna. Nel mio immaginario televisivo, Bob era una certezza assoluta, uno di quelli che non sbagliavano mai. Con la Saint Bonaventure University aveva dominato tre anni di fila ricevendo il prestigioso riconoscimento di miglior giocatore della Eastern Conference. Era un talento naturale. Bob deteneva una terrificante media punti e rimbalzi con altissime percentuali di realizzazione. Avrebbe avuto, senza dubbio, una folgorante carriera tra i professionisti. Ed, infatti, nel draft del 1970 Bob è la “prima chiamata” dei Detroit Pistons, e precede molti altri giovani talenti di quell’incredibile era, gente inarrivabile come Pete Maravich, che andò ad Atlanta, o Dave Cowens, che finì invece per indossare la casacca dei Boston Celtics.

L’All-Star Game del 1974.

Lanier era un centro straordinario, tra i più regolari, sempre “caldissimo” sotto canestro quando il match entrava nel vivo, capace di tenere medie fantastiche, da oltre 25 punti e 14 rimbalzi a partita.  Sin dal secondo anno a Detroit diventa un punto di riferimento per la squadra e il pubblico. Il 1974 rappresenta l’apice di quel folgorante decennio. Oltre a portare a casa i soliti bottini, sempre in doppia cifra, Lanier trascina la squadra ai play-off. Nonostante lo strabiliante gioco, però, la sorte non si dimostra benevola. Detroit esce al secondo turno per mano dei Chicago Bulls di Dick Motta. Il titolo finisce a Boston, ai Celtics, per la dodicesima volta della loro storia, e a Bob rimane solo l’amaro in bocca. Le eccellenti prestazioni, però, gli aprono le porte dell’ “All Star Game” dove gioca per la Western Conference a fianco di leggende del calibro di Spencer Haywood e Kareem Abdul-Jabbar. Lanier, non solo realizza 24 punti favorendo così la vittoria della Western, che si impone con ben dieci lunghezze di scarto, ma si prende anche la grandissima soddisfazione di essere nominato miglior giocatore del match, entrando così in quel ristretto ed esclusivo albo che raduna i migliori di sempre, da Pettit a Erving, da Bird a Jordan, da Magic Johnson a Isahia Thomas.

La maglia numero sedici e le scarpe numero 22.

Per tutti i restanti anni settanta Bob continuò a rimanere un riferimento, inanellando prestazioni sempre all’altezza delle aspettative. Ciò nonostante, però, i Pistons finiscono per essere inghiottiti da una profonda crisi tecnica che vanifica le sue incredibili medie. Con gli anni ottanta, passa ai Milwaukee Bucks, con cui centra, per quattro anni di fila, l’ambito traguardo dei play-off, prima del definitivo passo d’addio. Io, Bob me lo ricordo bene il sabato pomeriggio alla televisione, con Dan Peterson che urlava al microfono dispensando massime d’artista. Mi ricordo la sua maglia numero sedici, la sua fatata sospensione, il morbido tocco da sotto, la classe, l’agilità e l’eleganza delle giocate, i suoi 2 metri e 11, le parabole perfette e la retina che assorbiva regolarmente la palla, come se mani esperte l’avessero pilotata, come se qualcuno avesse celato tra la gomma qualche potente magnete. Mi ricordo anche i suoi mostruosi piedi, due cose gigantesche che calzavano scarpe numero 22, le più grandi mai indossate fino ad allora da un giocatore di basket, talmente enormi da venire riprodotte in bronzo e piazzate, con tutti gli onori del caso, davanti al Naismith Memorial, l’Hall of Fame del basket americano, a Springfield, in Massachusetts. Al di là della storia, di onori e meriti, di riconoscimenti, medie aritmetiche e ragguagli tecnici, Lanier rimane ancora oggi quell’agile giocatore che dal centro dello schermo andava, sempre e comunque, a canestro. Bob, in buona compagnia di Larry Bird, Julius Erving e del grande Jabbar, era la mia certezza in quegli affannati doposcuola. Dopo di lui arrivava il sabato pomeriggio, tutta la magia di quegli anni e la brezza di un profondo e irripetibile senso di libertà.