Once in a lifetime: Reinhold Messner

Il 17 settembre 1944 nasce a Bressanone Reinhold Messner, alpinista, scrittore ed esploratore. Reinhold è la montagna, il suo silenzioso e muto respiro, i rimbombi e gli echi della risalita, le selle ripide e la roccia verticale, gli anfratti ghiacciati e gli aspri crinali battuti dal vento. E’ lo spirito dell’inviolato, del coraggio della bellezza. E’ l’importanza della rinuncia, della fatica e della resistenza. Ma, soprattutto, Reinhold è il rispetto profondo, per noi stessi e per tutto ciò che ci circonda. Con Walter Bonatti, George Mallory e Paul Preuss, Messner ha rappresentato l’anima di un alpinismo lirico e umano che, prima di tutto, era ed è crescita interiore, prova intima di maturità, scalata solitaria, sfida ragionevole ai propri limiti, e mai, invece, gesto atletico o mero esercizio stilistico.

Funes e le Odle.

Sui sentieri d’alta quota Reinhold ci era cresciuto. Quella dimensione verticale che ne caratterizzerà l’intera vita gli aveva tenuto compagnia sin da bambino, sin da quando salì con il padre in vetta al Sass Rigais. Aveva solo cinque anni, ma Reinhold sapeva che avrebbe fatto quello per tutta una vita. Funes e le Odle erano state la sua prima casa. Guardando quelle cime, ripassando ogni giorno quei profili taglienti da cartolina, dove il sole si specchia al cospetto di un vorticoso mare verde di abeti e conifere, fantasticava chissà quale impresa, chissà quale ascesa. Furono quei picchi a salvarlo dalla deriva del quotidiano, a fargli capire che scalare sarebbe diventato qualcosa più di un divertimento, che tra quelle vette non si sarebbe mai perso, che su quei sentieri avrebbe conosciuto la maturità, il dolore, la perdita per poi ritrovarsi. Sarebbe stato solo una questione di tempo, perché, a tredici anni Reinhold quelle vette le avrebbe accarezzate una ad una, con rispetto e umiltà. Le scalerà, infatti, tutte e più volte. Poi comincerà a guardarsi attorno, cercando anche altrove quella stessa profondità e quella tensione, buona per vivere senza scivolare nella mediocrità, necessaria per non dimenticare i sogni, indispensabile per cercare ossigeno dove più scarseggia e dove l’aria si fa sottile come una lama.

La via più diretta.

Ci sono diversi modi per attaccarsi alla montagna. Quello di Messner era privo di scorciatoie o aiuti, senza rifornimenti e portatori, senza riserve di cibo e ossigeno, senza imprigionare le cime in infinite cordate di turisti a caccia di qualche brivido fuori programma. Scalare, per Reinhold, è sempre stato ben più di una filosofia di vita. Messner non ha mai gradito la modernità dell’approccio progressivo, la logica dei campi base e delle spedizioni al seguito. Quando guarda una parete Messner pensa sempre alla via più diretta, pensa ad Hermann Buhl, pensa che, alla fine di tutto, salire è una questione di intelligenza e visione, di acume e resistenza. Il suo alpinismo è quello dei pionieri, in arrampicata libera e spesso solitaria, leggera e veloce, senza lasciare traccia del passaggio, senza corde fisse e con l’unica concessione di qualche chiodo ben piantato nella profondità nella roccia.

Il respiro profondo della montagna.

Il suo alpinismo è sempre rimasto questo. Con il fratello Gunther ha aperto nuove vie ovunque è salito. Ha dominato pareti celebri e inviolabili sulle Alpi come sulle Dolomiti, ha battezzato nuove vie sulle cime più difficili, dall’Ortles al Civetta, dall’Eiger alla Marmolada, dalle Grandes Jorasses al Sella, ha avuto il privilegio di sentire il respiro profondo delle vette nepalesi e himalayane. Le sue imprese le ha sempre portate a termine senza clamore ed enfasi, con grande consapevolezza e rispetto per la natura selvaggia in cui si è immerso. Gli “ottomila”, la terribile esperienza del Nanga Parbat, la discesa senza corde fisse, il congelamento di sette dita dei piedi, il dramma della valanga e della perdita del fratello, le sterili polemiche che ne seguirono lo resero più forte e duro, più attento e meno accondiscendente nei confronti di un mondo che andava già alla deriva, che scambiava l’ascesa per un mero azzardo competitivo, che vedeva nella scalata un’opportunità commerciale e che pensava a facili ricavi senza restituire nulla ai territori e alle popolazioni locali, senza alcuna tutela per l’incanto e la speciale magia di quei luoghi.

Il primo in tutto.

Anche per questo, per questa appassionata visione, per questa capacità di vivere empaticamente e fino in fondo l’alpinismo, per il modo gentile e determinato di fare di ogni sfida un’esperienza responsabile, Reinhold rimane il più grande di tutti, il primo ad essere salito per ben due volte sulla vetta dell’Everest senza bombole d’ossigeno (“una lunga e continua agonia” racconterà poi), il primo ad aver scalato quattordici “ottomila” nel giro di pochi anni quasi sempre in arrampicata libera, con attrezzature ridotte al minimo e aprendo spesso nuove vie, il primo ad aver attraversato a piedi l’Antartide senza l’aiuto di mezzi o animali, il primo a “domare” in solitario il deserto dei Gobi, il primo a dedicare una serie di straordinari musei alla cultura della montagna, il primo a dare un diverso e più profondo significato all’impossibile. “Bandiere sulle montagne non ne porto: sulle cime io non lascio mai niente, se non, per brevissimo tempo, le mie orme che il vento ben presto cancella.”